[CONCLUSA] Esistenze Congiunte, volume 4

Parte 4 [Serie Esistenze Congiunte]

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Plus
    Posts
    126
    Anormalità
    +7
    Location
    Dal luogo in cui si fondono perfettamente Luce ed Oscurità

    Status
    Capitolo 11 - Stesso cielo, stessa prigionia
    Da quanto tempo non dormiva ormai? Minuti? Ore? Giorni? Una settimana? Forse addirittura di più. Sembrava quasi che la testa le esplodesse per il dolore. Ormai non usciva più dalla sua stanza, le finestre erano chiuse, le serrande abbassate per impedire che la luce del sole entrasse. Ormai non sopportava più nemmeno quella. I suoi genitori non sapevano più che cosa fare. Disperati, si limitavano a portarle del cibo e continuavano a chiederle se stesse bene o se il dolore fosse migliorato almeno un po'. Quello che non comprendevano era che quel male non poteva finire. Non poteva assolutamente passare. O almeno non in quel modo.

    “Portiamola da un dottore!” disse il padre, al limite della sopportazione e distrutto da quella serie ormai infinita di notti insonni.

    “Non possiamo! Cosa ci direbbero? La rinchiuderebbero da qualche parte per studiarla, come cavia! Sai benissimo che cosa le farebbero!” rispose la madre alzando la voce, anche lei stremata.

    “E allora cosa suggerisci di fare?! Lasciarla in questo stato per sempre?” Continuò lui, superando la voce della moglie. Lei si lasciò andare su una sedia, sconvolta, priva di forze. Prese la testa fra le mani, i gomiti appoggiati al tavolo. “Cosa possiamo fare?” Disse poco prima di scoppiare in lacrime. Il padre la raggiunse, sedendosi accanto a lei e prendendole la mano. “Abbiamo sempre quella soluzione...” riprese lui dopo qualche istante di silenzio. Lei si bloccò, fissandolo dritto negli occhi per istanti che parvero interminabili. Nonostante la sua riluttanza nel valutare quell'alternativa, forse era giunto il momento di prenderla in considerazione. Che altra scelta avevano, dopotutto?

    Nell'altra stanza, intanto, la ragazza camminava avanti e indietro per la stanza. I capelli scompigliati e arruffati, indossava gli stessi vestiti da alcuni giorni ormai. Non voleva che nessuno entrasse. Le avrebbe causato solo altri danni. Si fermò sul letto, schiacciandosi i palmi contro le tempie nel tentativo di far diminuire il dolore. Niente. Si alzò in piedi, urlò, prese a calci l'armadio, la scrivania, il muro, si fece male: così tanto male da poter più sentire niente di tutto ciò che si trovava nella sua testa, nel suo corpo, nel suo cuore. Ma niente da fare. Erano ancora lì, non volevano andarsene.

    Fuori un treno passò senza quasi fare alcun rumore, il traffico incessante sembrava non emettere alcun rumore, pareva essere parte integrante dell’ambiente circostante. Dall’interno della sua casa, Satomi non lo poteva sentire. La loro città era il fiore all'occhiello della tecnologia. Nessun'altra vantava un simile livello di sviluppo, servizi o qualità della vita. Tutto, o quasi, era diventato automatizzato. E la cosa ancor più sorprendente era stata la velocità con la quale quel balzo verso il progresso era stato fatto. Le persone ormai non potevano fare a meno di tutte le comodità che possedevano e che avevano ottenuto. Così le porte e le finestre venivano aperte da lontano, con semplici gesti delle mani grazie ai programmi inseriti direttamente all'interno dei corpi delle persone. Bastava muovere le dita, collegare i propri occhi, ed immediatamente faceva la sua comparsa uno schermo su cui digitare. Non era nemmeno necessario recarsi ai negozi: tutto arrivava a casa. Aprendo la porta dalla camera da letto ovviamente. O dal bagno. O dall'ufficio, perché no? Si diceva anche che fosse la cittadina meno stressata del mondo. I contatti umani erano ridotti all'osso: le visualizzazioni, invece, erano alle stelle. La gente si vedeva, si osservava, ma non interagiva. Era quasi come se tutti si proiettassero all’esterno del proprio corpo, lasciando quest’ultimo a casa per portare via solo la propria immagine. Non corpi, ma proiezioni.

    Questo luogo attirava sempre più persone, e sempre meno erano quelli disposti a uscire per spostarsi nelle altre. Perché mai abbandonare un tale lusso? Da qualche mese la tecnologia aveva iniziato a diffondersi anche nei piccoli paesi accanto, lenta all'apparenza, velocissima di fatto. In breve tempo tutta una serie di esperimenti era riuscita a creare un network di collegamenti anche con le cittadine confinanti, progettando di espandersi sempre di più. Le altre due grandi capitali, però, sembravano ancora lontane dall'abbracciare una simile visione del mondo. Teocratica e proibitiva una, chiusa in sé stessa e priva di contatti con l'esterno l'altra. Se della seconda ormai non si sentiva più alcuna notizia - chiusa com’era fra la neve e gli alberi misti ai rovi - dall'altra la resistenza era fiera e sentita. Le accuse erano corruzione, depravazione, scompaginazione dei valori essenziali dell'esistenza umana. Fra le tre parti due non si capivano e una non comunicava. Inevitabile la frattura fra i paesi di collegamento che abbracciavano, a seconda degli abitanti, l'una o l'altra fede. Le offese, che a seconda della provenienza variavano fra “barbari” e “immorali”, fra le due si sprecavano. Tanto che presto divenne quasi impossibile dare ragione all’una o all'altra.

    Eppure, in tutto questo, la ragazza di quella stanza soffriva. Rino Satomi conosceva l'avanzamento della sua città solo per sentito dire, perché raggiunta l'adolescenza era stata costretta a vivere in casa dal disagio causatole da qualcosa che andava ben oltre la comprensione di tutti gli scienziati lì presenti. In una parte di mondo che sembrava votata a portare l’immagine al di fuori della casa in cui gli abitanti vivevano, lasciandosi dietro il corpo, il proprio spazio, il proprio ambiente per proiettarsi verso l’apparente mondo che stava al di fuori, lei era costretta a percepire quel “fuori” costantemente anche nel suo piccolo spazio.

    Fin da quando era molto piccola, la giovane Satomi (il soprannome con il quale era conosciuta e chiamata da tutti) possedeva una sensibilità superiore alla norma. Che fosse un compagno di scuola triste o un'amica da consolare, che si trattasse di gioire per qualcosa di bello o condividere la rabbia e la tristezza per qualcosa di brutto, riusciva sempre a capire ciò che le altre persone sentivano. Nemmeno i suoi genitori erano in grado di tenerle nascosto qualcosa: un regalo, una brutta notizia o una bella novità. Prima di entrare in casa lei già sapeva e percepiva i cambiamenti in arrivo.

    Era facile amare questa bambina, impossibile non legarsi a qualcuno che, seppure così piccolo, riusciva a comprendere gli altri con tale profondità. Fin dalle prime classi del suo percorso scolastico si era mostrata come una bambina attiva, gentile, disponibile e per niente timida. E quando i genitori andavano a prenderla a scuola, la trovavano sempre circondata da bambini e bambine che l'ascoltavano. La loro bambina sembrava crescere lungo una linea che correva parallela ma separata rispetto a quella dei figli dei loro amici, parenti, conoscenti. Lì nessuno era sconosciuto, nuovo, straniero o poteva nascondersi. Tutti potevano entrare nelle case degli altri o conoscerne la vita attingendo ai file messi a disposizione sulla vita di tutti. Tutti erano connessi e tutti erano tranquilli. Tutti condividevano le cose belle e brutte della propria vita. La città conosceva ogni suo singolo abitante. Ogni cittadino conosceva la sua città. Satomi conosceva tutti. Ciò che la distingueva dagli altri era il modo in cui veniva a conoscenza delle loro vite. Entrava nei loro cuori, nelle loro menti, si metteva in contatto con loro tramite le emozioni che provavano. O meglio, questi ultimi entravano nella sua mente.

    “Sua figlia è empatica” aveva detto un uomo, un dottore probabilmente, che l'aveva visitata in occasione di una giornata sulla salute a scuola (ovviamente vista in collegamento – non si andava più fisicamente a scuola). Dopo aver notato i sintomi nella reazione al dolore fisico provato da un compagno e alla felicità provata da un altro, il medico aveva prodotto la sua diagnosi. Sconvolti, i genitori si chiesero cosa volesse dire quel termine e se si trattasse di una malattia. “Vede, dottore, noi non sappiamo cosa sia! L'archivio di informazioni cui tutti possiamo accedere non ci ha fornito sufficienti dettagli affinché...” ma il padre venne interrotto rapidamente dal medico, con un gesto della mano.

    “Non mi stupisce, probabilmente lo avrete anche letto ma non ne avete compreso l'entità. Questo fenomeno è rarissimo, anzi, pensavo fosse ormai inesistente. Posso affermare che, con grande probabilità, vostra figlia è l'unico caso al mondo in possesso di queste facoltà!”. Scioccata, la madre aveva risposto prontamente: “non è rassicurante quello che ci sta dicendo dottore, come si può curare?”. Curarla? Aveva chiesto lo scienziato. Dopo di che aveva iniziato a elencare tutta una serie di possibili situazioni, che prevedevano le parole: studiare, analizzare, capire, sperimentare. Tutto tranne una cura. Durante la loro discussione Satomi camminava avanti e indietro nella stanza accanto, scaricando la tensione dei suoi genitori in quei movimenti circolari, veloci, rapidi che circoscrivevano l'area attorno al tavolino della sala d'attesa.

    La sua famiglia era piuttosto benestante, o di certo non avrebbero potuto permettersi di abitare lì. Né di vivere in quella comunità in cui tutto era condiviso, inclusa la vita personale di ognuno. Suo padre e sua madre sapevano bene l'importanza di una buona donazione per contribuire al progresso della loro stessa città. La bambina tornò a scuola il giorno dopo, e nessuno seppe cos'era stato scoperto quel giorno. Ma dopo la tragedia successiva e lo stato attuale delle cose, i due coniugi non potevano più cavarsela da soli. Avevano bisogno d'aiuto.

    Fu così che Kuniko si presentò una mattina di dicembre a casa di Satomi. Dall'esterno la casa era tranquilla, bella, accogliente. Con un gesto della mano scoprì che in realtà una delle stanze era stata isolata (anche se in modo piuttosto rudimentale, probabilmente non erano esperti nell’uso dei computer), impedendo gli accessi alle persone esterne. “Come attirare l'attenzione sul problema” disse fra sé e sé, stupita da tanta incapacità. Ma effettivamente non poteva lasciarsi andare a certe critiche controproducenti, questo caso era unico e non poteva lasciarselo sfuggire per colpa della sua abitudine di dire le cose con un tono simile al disprezzo. Con un altro gesto della mano parcheggiò la sua auto poco più in là.

    Si abbottonò la giacca per evitare di dare loro l'impressione di essere una persona trasandata, anche se il controllo climatico della città imponeva un caldo un po’ troppo, secondo lei, eccessivo. “Non hanno voluto ascoltarmi, sapevo che avrei dovuto programmarlo da sola”. E con questa frase iniziò a camminare con passo deciso verso la casa, con la borsa che ondeggiava appesa al suo braccio destro. Si tolse gli occhiali da sole una volta giunta davanti alla porta d'ingresso e poggiò il palmo della mano sul dispositivo di riconoscimento, che subito la scansionò, per passare poi alla retina. Quando si aprì, entrò aggiustandosi i capelli rossi, cercando di non lasciar trasparire la noia che provava in quel momento.

    “Benvenuta Dottoressa” la salutò il marito, stringendole la mano. “Buongiorno” lo imitò la moglie, nelle parole come nei gesti. Conclusi i convenevoli, Kuniko arrivò dritta al punto: “Bene, so che mi avete chiamato per un caso che avete definito critico. Isolarla in quel modo non è stata una buona idea, per vostra fortuna non tutti riescono a notare una cosa del genere, ma se fosse passato un qualunque tecnico con un minimo di cervello avrebbe scoperto il vostro segreto in men che non si dica” disse con voce tagliente. Prima ancora che la coppia fosse in grado di rispondere, però, proseguì: “Ho già provveduto a rimuovere l'isolamento, sostituendo la sua immagine con un'altra, sempre della ragazza, in movimento, giusto per farla sembrare normale. Essendo un programma avanzato, nessuno dovrebbe riuscire a riconoscerlo, data l'assenza di esperti nel settore da queste parti”. Marito e moglie, stupiti, rimasero in silenzio per un attimo senza capire bene cosa fosse accaduto in realtà. Si limitarono a borbottare un “grazie” in coro.

    “Bene, permettete? Vorrei vederla di persona” chiese Kuniko.

    “Non vuole sapere di cosa si tratta?” chiese la madre, sempre più preoccupata.

    “Mia cara signora, tutto quello che dovevo sapere l'ho scoperto un istante dopo essere stata contattata da voi. Ora, se vogliamo risparmiarci il momento in cui io elenco ogni più piccola cosa da voi fatta, acquistata, costruita, cambiata e modificata da quando siete entrati in questa città, e anche prima, preferirei venire al sodo” fu la risposta secca e decisa della donna dai capelli rossi, pronunciata dopo aver socchiuso gli occhi per fissarli dritti negli occhi.

    “La ragazza ha diciassette anni, corretto?”

    “Sì, corretto” disse il padre, visibilmente preoccupato.

    “E ha sempre avuto questi sintomi, vero?” Continuò a chiedere Kuniko.

    “Sì, fin da piccola, crescendo si sono amplificati ma...”

    “E ora siamo giunti a una crisi, come si può vedere e soprattutto sentire” concluse la donna interrompendolo. Si voltò verso la stanza da cui provenivano urla a intervalli di tempo regolari. La donna abbandonò la borsa sul tavolino del salotto e si diresse verso la fonte di quel rumore. Mentre i genitori trattenevano il fiato, le grida cessarono. Dopo qualche minuto Kuniko fu di ritorno. “L'ho messa a dormire, se vi spiegassi come staremmo qui a discuterne fino a domani senza che voi riuscireste a capire anche solo una parola di ciò che vi direi” annunciò con fare di superiorità. Ogni volta che spiegava o rispondeva in quel modo, il sopracciglio destro si alzava come in automatico. D'altronde era tollerabile, non capitava tutti i giorni di avere a che fare con una delle menti più brillanti del mondo.

    In tutta la sua vita non aveva mai visto un caso simile, non in quella città. “Che cosa... Che cosa le farete?” Chiese la madre, portando una mano alla bocca nel momento in cui Kuniko aveva detto cos'era accaduto poco prima. “Quello che faccio con tutte le scoperte nuove, signora. La studierò e ne carpirò ogni segreto, nel minor tempo possibile” fu la risposta assai poco rassicurante della donna. “Cercherò di capire da cosa è provocata, anche se escludo a priori che si tratti di una malattia. Vostra figlia è diversa, iniziate a mettervelo in testa”. E così dicendo lasciò i due genitori traumatizzati, prima di voltare loro le spalle e uscire. I suoi due assistenti entrarono e portarono fuori la ragazza inerme, per portarla in macchina. Qualche minuto dopo, era già in viaggio verso il suo laboratorio, poco fuori città.

    La possibilità di avere a che fare con persone di quel tipo, come quelle che abitavano quella città, curiose e ignoranti, era la motivazione principale per cui aveva costruito la sua ragione di vita al di fuori dei confini di quel posto. Nonostante avesse contribuito a guidarne l'avanzamento per svariati anni. Ma si sa, il progresso è cambiamento e Kuniko cambiava molto e spesso. Quel progetto l'aveva annoiata a sufficienza, ciò a cui stava lavorando in quel momento era decisamente più stimolante. E nel preciso istante in cui aveva sentito la notizia dell'incendio scoppiato nella scuola più famosa della loro bella cittadina, aveva capito che si trattava di qualcosa che l'avrebbe impegnata parecchio. Quella ragazzina era diversa da tutti loro, non c'era dubbio alcuno. Una macchia colorato in mezzo a tutte quelle gocce grigie. “Tutto questo avanzamento ma così tanta cecità... Davvero qualcosa di incredibile. Almeno sono riuscita a prelevarla prima che la eliminassero in quanto programma difettoso” disse parlando con uno dei suoi assistenti, che annuì con il capo, continuando a guidare. Il resto del viaggio continuò in silenzio. Una volta giunti a destinazione, Kuniko scese di fretta dall'auto, chiudendo la porta dietro di sé. “Forza, fatela scendere, abbiamo molto lavoro da fare e pochissimo tempo”.


    Capitolo 12 - Risposte

    I primi fiocchi di neve iniziavano a cadere. Gli inverni erano sempre più duraturi, sempre più freddi e sembravano arrivare ogni anno prima del solito. Quel giorno nella taverna c'erano più persone del solito. La folla riempiva l'intero salone con chiacchiere, grida, brindisi, risate, imprecazioni dovute alle diverse sconfitte ai vari giochi che si stavano consumando ai tavoli più reconditi, nascosti ai lati o vicino a uno dei due ampi caminetti che scaldavano quella enorme stanza. Uno dopo l'altro, gli uomini si recavano al bancone richiedendo una quantità di bevande che pareva essere infinita. Il propretario dell’osteria era così indaffarato che a stento riusciva a distinguere i volti di chi faceva una richiesta piuttosto che un'altra. La sua camicia ormai era zuppa di sudore tanto era costretto a muoversi avanti e indietro.
    Un tale impegno distoglieva completamente la sua attenzione anche da chi entrava e usciva dal locale. Proprio per questo motivo non vide entrare una figura mai vista prima in quella città. O almeno, era sconosciuta a tutti gli ospiti meno che al padrone della locanda. Improvvisamente era calato il più completo silenzio. Nessuno fra i presenti parlava più e coloro che si erano intrattenuti fino a quel momento in giochi e risate si voltarono verso la porta d'ingresso. Una figura snella, alta, avvolta in un mantello che arrivava fino a terra di colore blu. Il cappuccio dello stesso colore, ma con il bordo nero, che copriva la testa. Su tutto il tessuto si vedevano ancora alcuni fiocchi di neve che si sciolsero rapidamente, lasciando al loro posto una piccola macchia che segnalava l'umidità lasciata su quell'abito. Lentamente, la nuova arrivata percorse quanto le mancava per arrivare al bancone con ampie falcate, senza rimuovere il cappuccio che copriva il volto. Giunta alla sua destinazione, fissò per un attimo due uomini che, intimoriti e affascinati al tempo stesso da tale nuova apparizione, le cedettero il posto. Una volta seduta abbassò la parte superiore di quell'abito che nascondeva la sua vera identità al resto del mondo.
    Il proprietario della locanda, il signore sorridente che tutti amavano, si lasciò andare a una delle sue solite e rumorose risate dopo aver riconosciuto il volto della donna responsabile di quel silenzio improvviso. Non c’era da sorprendersi che tutti fossero fermi: percepiva, infatti, nuovamente quel profumo straordinario che aveva percepito la prima volta che era stato al suo cospetto. Posò i boccali che teneva in mano e si avvicinò a lei. Ancora sorridente, si appoggiò al bancone. Il legno freddo diede sollievo per un istante al caldo insopportabile di quel luogo. “Qualcosa mi diceva che ci saremmo rivisti” disse lui, primo fra i due a parlare.
    La donna volpe sorrise. “Cosa devo fare per avere qualcosa da bere in questo posto? Non sei molto efficiente a quanto pare” rispose lei. L'uomo si alzò senza pronunciare alcuna parola, a parte la sua risata inconfondibile. Preparò la sua specialità, una bevanda piuttosto forte ma che univa il gusto di un tipo particolare di foglie che si trovavano esclusivamente nel bosco intorno a quella città. Prima di servirla, però, ne preparò un secondo per se stesso. Tornato alla sua postazione avvicinò uno dei due bicchieri alla nuova arrivata e, simulando il gesto di un brindisi con la mano, bevve un primo sorso. Lo stesso fece lei, posando poi delicatamente il bicchiere che tintinnò appena a contatto con il legno.
    “Cosa ti porta da queste parti, straniera?”
    “La ricerca di qualcosa di interessante, ma vedo che dovrò rinunciare a quest'aspettativa visto il tipo di persone che visitano il tuo locale”.
    “Diretta e tagliente, mi piace”
    “E cosa ha trascinato te in un posto come questo?”
    “L'ho costruito io, ovviamente. Quando sono arrivato qui non avevo ne soldi ne una casa, ma con il tempo ho tirato su questa piccola attività. È facile fare affari quando ci si mostra simpatici e cordiali, dovresti provare qualche volta” disse sollevando il sopracciglio destro, per poi bere un altro sorso dal suo bicchiere.
    Anne Redfox sorrise nuovamente. “Senz'altro un buon consiglio, ma nelle persone apprezzo qualità decisamente più concrete di una risata sguaiata. Per non contare la piccola incompatibilità di fondo che mi impedisce di apprezzare tali qualità nel mio attuale interlocutore”.
    Il sorriso si spense per un attimo nel volto dell'uomo, per poi ritornare più largo di prima. “Ma senti un po'! Allora non sei totalmente priva di senso dell'umorismo! Dimmi, hai intenzione di lasciare i miei clienti imbambolati così ancora a lungo?”
    “Solo fino a che non avrò deciso cosa fare di te”
    “Oh, lo hai detto come se io non avessi alcun tipo di scelta”
    “Cosa pensi mi abbia tenuto in vita se non la consapevolezza di poter far fuori chi mi ostacolava o minacciava piuttosto agilmente?”
    “Di certo il tuo fascino ha contribuito” disse lui con tono galante.
    “Sappiamo entrambi che il fascino non basta a sopravvivere in questo mondo. Tu piuttosto, non hai paura che qualcuno qui scopra il tuo segreto?” Fu la risposta provocatoria di Anne. La donna bevve un lungo sorso mentre aspettava che l'altro ribattesse a quella sua domanda. Come si aspettava, la reazione non si fece attendere a lungo. “I pochi che lo conoscono sono costretti a portare il mio stesso fardello, e inoltre basta non esporsi troppo.”
    A queste ultime parole la donna colse tutto il peso e la malinconia di quanto era stato appena detto. Indecisa sul da farsi, bevve un ulteriore sorso di quella bevanda. Aveva scoperto che gli altri esseri umani perdevano il controllo di loro stessi con quelle sostanze, cosa che a lei non accadeva. O almeno, ne servivano quantità piuttosto elevate perché entrasse in quello stato, di conseguenza non le era mai accaduto. Riprese la conversazione dopo qualche istante: “voi esseri umani siete proprio strani, siete le creature migliori di questo mondo quando si tratta di imporvi dei limiti.”
    “Noi esseri umani?” Ripeté lui ridendo, per poi continuare “E tu cosa saresti scusa?”. Anne fece ondeggiare leggermente le due orecchie da volpe sulla testa, fissando distrattamente un uomo che era rimasto con sguardo sognante a fissarla, un rivolo di saliva che scendeva dal lato sinistro della bocca. “Si, voi umani. Non ho idea di cosa io sia, lo sto scoprendo, ma di certo non sarò qualcuno che si impone limiti su una cosa tanto istintiva e fondamentale come il desiderio”.
    L'uomo abbassò lo sguardo, scuotendo leggermente la testa. Lei non poté fare a meno di notare quel movimento che esprimeva tutto il disappunto che lui provava in quel momento. Prima di parlare aspettò ancora qualche istante, domandandosi cosa avesse potuto provocare quella reazione. Qualcosa che aveva detto? O forse era semplicemente stata troppo diretta? Ma la cosa davvero strana era che lei provasse, in quel momento, qualcosa di molto simile al senso di colpa. Non era mai accaduto prima, in genere aveva sempre detto quello che pensava senza preoccuparsi di ferire o meno chi aveva davanti. Perché in quel caso era diverso? Quell'atmosfera di familiarità che provava quando era con quell'uomo... Possibile che non ferirlo fosse così importante?
    “Non approvi?” Chiese qualche istante dopo.
    “No è che... Non è sempre e solo una questione d'istinto... È solo che questi discorsi hanno fatto riaffiorare brutti ricordi...” Rispose lui, rialzando lo sguardo verso di lei. Impossibile non notare il luccichio nei suoi occhi.
    “Voi e i vostri sentimenti... Ma in fin dei conti penso sia quello che rende tutto quanto così complicato e meraviglioso allo stesso tempo”, continuò Anne. “Immagino che il tuo cuore appartenga a qualcuno, o almeno credo si dica così” aggiunse, prima di finire l'ultimo sorso dal suo bicchiere.
    L'uomo accennò un sorriso, che tuttavia non riusciva a nascondere la malinconia presente tanto nei suoi occhi quanto nella sua espressione. “Un tempo sì, ora non lo so più...”. Anne non si accontentò di quella risposta così breve ed evasiva, limitandosi a sollevare il sopracciglio e a sfoderare il suo tipico sguardo impaziente. “Certo che tu non sai affatto cosa sia la discrezione!” Reagì lui, che sembrava aver ritrovato parte del suo solito buonumore: “Ero innamorato, sì, diversi anni fa. Ma gli anni passano e le persone cambiano, quello che attraversiamo ci fa cambiare, ci trasforma in persone diverse. Ora, però, rischio di perdere entrambe le persone che amo”
    “Entrambe?” Chiese Anne curiosa.
    “Sì...”
    “Beh anche a me è capitato di provare qualcosa per più di una persona... Ma da quel che dici, e soprattutto da come lo dici, sembra che tu intenda una cosa diversa” proseguì lei. Aveva una strana sensazione, come se si stesse addentrando in una zona piuttosto delicata. Come sempre il suo istinto l'avvertiva in tempo e, in genere, non aveva mai sbagliato. “Hai ragione, è diverso...” Disse lui voltandosi verso la finestra alla sua sinistra. Era piuttosto grande e lasciava intravedere svariate case e la strada principale della città. Tuttavia, aguzzando lo sguardo per scorgere qualcosa in più fra neve e oscurità, Anne si accorse che sullo sfondo di quel panorama che il vetro teneva separato da loro torreggiava la figura di una costruzione enorme, su una collina.
    “L'orfanotrofio?” Chiese, più impaziente che mai. Che anche lui avesse qualcuno all'interno di quel luogo? Anne appoggiò il bicchiere sul tavolo, sporgendosi in avanti, i suoi occhi ridotti a fessure scrutavano il volto del suo interlocutore. “Chi sei tu, esattamente?” Aggiunse, ormai senza più trattenersi.
    L'uomo indietreggiò leggermente, stranito da quel cambiamento di espressione. “Io sono solo il proprietario di questa locanda, niente di più!” Rispose massaggiandosi la nuca con la mano, un gesto che non mascherava per niente il suo improvviso nervosismo. La donna dalle orecchie di volpe si alzò dal tavolo, lanciando un lungo sguardo indagatore sull'uomo che aveva di fronte. “Riconosco uno sguardo interessato quando ne vedo uno... Cosa cerchi a Heaven's Feel?”
    “Io... Io... Io abito qui da anni, piuttosto tu, una sconosciuta, cosa può volere da quell'orfanotrofio?”. Stava cercando di raggirare la domanda, per evitare quella che lei gli aveva appena posto. Ma Anne era fin troppo esperta per cadere in un tranello da due soldi di quel tipo.
    “Stai evitando la mia domanda?” Infierì ancora lei. Perché le importava così tanto? Dove si erano visti? Quei quesiti non avevano alcuna risposta, ma Anne sentiva di esserci molto vicina.
    “Posso solo dirti di stare molto attenta a quel posto... Lui non ti permetterà mai di entrarci così facilmente”
    La donna accennò un sorriso. “Anche loro non mi avrebbero fatta entrare, eppure guardali.”. Il viso dell'uomo si fece cupo, più del solito e soprattutto più di prima. Lanciò di nuovo un rapido sguardo in direzione di Heaven's Feel, prima di voltarsi di nuovo verso Anne: “non potrai mai soggiogarlo come hai fatto con loro”. Lei lo guardò incredula per un istante, conscia del fatto che quell'uomo non avesse chiaro con chi stesse parlando. Oppure...
    Anne si voltò, iniziando a muoversi verso la porta. “Che lui lo voglia o no entrerò in quell'edificio, c'è una persona che devo assolutamente conoscere. Senza potrei non scoprire mai chi sono davvero... Staremo a vedere quanto sarà in grado di resistere”. Così, senza attendere risposta alcuna da parte del proprietario della locanda, Anne Redfox uscì da quel posto, ritirando il suo potere poco per volta. In pochi istanti, tutti i presenti ritornarono alla normalità, fissandosi l'uno con l'altro con sguardi interrogativi e preoccupati, senza sapere cosa fosse successo. Tuttavia tornarono in fretta alle loro precedenti occupazioni, ma nessuno si accorse, almeno nell'immediato, che il proprietario della locanda non era più al suo posto. Era corso fuori, in mezzo alla neve. Ma quando raggiunse l'esterno, di Anne Redfox non rimaneva più alcuna traccia.


    Capitolo 13 - Primi passi

    Nel frattempo, la neve aveva ricoperto l’intero parco di Heaven’s Feel. Gli alberi, così come il prato, erano ricoperti di un candido velo bianco. Quello spettacolo suscitava in Lucy una strana sensazione: aveva visto tante volte la neve, ma ogni volta che vedeva quel paesaggio come avvolto da un’enorme coperta che avvolgeva tutto ciò che si trovava all’interno dell’orfanotrofio, edificio completo, provava una sorta di malinconia che arrivava dritta dai meandri più profondi del suo cuore. Eppure non riusciva a spiegarsi da dove provenisse: ma per fortuna (anche se era riuscito a tenerle nascosto questo pensiero) c’era sempre il Lupo a rallegrarla.
    “Tempo fa mi hanno parlato di un libro. Pare che sia stato scritto da un autore di cui non ricordo bene il nome né il periodo. Celestine mi ha raccontato che la storia parla di un vecchio, avido e senza cuore, che non solo tratta male tutti, ma fa qualcosa di così cattivo che tre fantasmi (nella notte di Natale) vanno a fargli visita facendolo pentire, per farlo tornare sulla retta via. Da qualche giorno non posso fare a meno di pormi una strana domanda: cosa mi direbbero i tre fantasmi se mi facessero visita? E soprattutto... Cosa mi direbbe il fantasma del Natale passato? Forse... Forse potrebbe davvero aiutarmi a scoprire qualcosa in più sul mio passato che ancora non conosco. Dopo l'ultima avventura ho evitato di leggere così spesso il libro. Se mi capitasse nuovamente potrei uscirne accompagnata di nuovo da qualcuno di strano, e prima o poi potrebbero scoprirmi. Non oso immaginare cosa direbbe il Signor Blackthorn se sapesse che ho portato un Lupo nella sua dimora.”
    “Guarda che ti sento, chi sarebbe strana scusa?” Chiese il Lupo con tono minaccioso. “Ehm! Nono! Nessuno!” Rispose prontamente Lucy, prima di tornare ai suoi pensieri. Dentro il volume aveva visto questa storia. Era lì, fra le altre. Circa a metà libro. Però non aveva avuto il coraggio di leggerla. Il Lupo, annoiato da cotanta indecisione, si nascose nei recessi della mente della giovane per schiacciare un pisolino, di modo che lei potesse “starsene sola con le sue paranoie”.
    Come faceva a fare sempre tutto così facile? “Però forse ha ragione, un tentativo devo farlo comunque... E va bene! E' deciso! Leggerò questa storia e troverò anche io il mio Natale passato!” E così Lucy trascinò la sua solita poltrona vicino al caminetto, prese l'enorme volume e iniziò a sfogliarlo. Una volta raggiunta la pagina desiderata si fermò. E se non avesse funzionato? Se una volta letta la storia non fosse accaduto nulla? Cosa avrebbe fatto? Il Lupo non rispondeva. Si era davvero addormentata lasciandola sola con i suoi dubbi. Preoccupata, gettò uno sguardo fuori dalla finestra. No, doveva provare. Era l'unico modo che aveva per poter vedere quel mondo che stava là, fuori dalla finestra, quel mondo da cui anche lei proveniva: d’altronde in qualche modo era entrata ad Heaven’s Feel. Così vicino eppure così irraggiungibile. Però lei aveva trovato un passaggio. E nessuno poteva impedirle di attraversarlo. Risoluta e decisa a compiere questo nuovo viaggio, iniziò a leggere la storia.
    “Sei sicura di quello che stai facendo? Potresti scoprire cose che non ti faranno piacere” disse improvvisamente il Lupo, che era rimasta in silenzio fino a quel momento. Spaventata, sobbalzò facendo quasi cadere il libro. Non si era ancora abituata a quell'intrusa nella sua mente.
    "Ehi mocciosa! Chi hai chiamato intrusa? EH?! Vuoi che esca e ti faccia nera?!"
    "Nono!! Scusa scusa scusa scusa! È che non mi sono ancora abituata ad avere qualcun altro nella mia testa. O dentro di me. O in qualunque posto tu sia, quando addirittura non prendi il mio posto!” Perché, ebbene sì, poteva anche attraversare i limiti e la barriera circoscritta della sua mente per uscire fuori e assumere il suo vero aspetto. Un mattino Lucy si era svegliata e, specchiandosi, per poco non aveva avuto un infarto. I suoi capelli erano bianchi, meno lunghi del solito. Due canini affilati risaltavano da un sorriso spavaldo, mentre indossava abiti che avrebbero fatto svenire il Signor Blackthorn dalla rabbia. “Ebbene sì, ho imparato a saltare fuori, sai? Dimmi, c'è qualcuno con cui posso divertirmi un po' qua dentro? O è sempre un mortorio simile?”. A stento era riuscita a riprendere il controllo del suo corpo, ricacciandola nella sua mente. O semplicemente il Lupo si era stufato di stare lì ed era ritornata a schiacciare un pisolino.
    “Non importa, nessuno mi negherà quest'opportunità... Potrebbe essere l'unica occasione di scoprire qualcosa di me e di cosa diventerò, ma soprattutto di chi sono stata in passato e da dover provengo... Finché starò seduta qui dentro o in una stanza a cucire non lo capirò mai!”
    Per la prima volta avvertì tutto lo stupore del Lupo. “Però! A quanto pare qualcuno ha scoperto di avere gli artigli come me! Bene, ma non dire che non ti ho avvertita! Buon divertimento” concluse la creatura, prima di sparire definitivamente senza farsi più sentire.
    Era sera ormai. Fuori alcuni fiocchi di neve iniziarono a cadere di nuovo. Nella stanza il camino accesso illuminava con la luce delle sue fiamme la stanza in un continuo gioco di ombre che danzavano su tutte le pareti e sul pavimento. Il fuoco crepitava, e Lucy, seduta sulla solita poltroncina, riprese il libro in mano per iniziare quella fatidica e tanto attesa lettura. “Che strano... In questo modo il fuoco mi scalda e riesco a vedere la neve scendere fuori dalla finestra. Mi fa uno strano effetto questa combinazione: come se fossi riuscita ad unire caldo e freddo.” Che strano pensiero. Il gelo del mondo esterno unito al calore della sua stanza. Tuttavia la sua mente scivolò in fretta verso una sensazione che ben conosceva. Una stanza vuota, senza ricordi e senza amici non è una stanza calda. “Sotto questo punto di vista la mia stanza è più fredda di ciò che si trova oltre la finestra. Ma perdersi d'animo pensando a queste cose è del tutto inutile. Forse questa volta riuscirò a scoprire qualcosa in più sulla mia vita, non posso e non devo affatto arrendermi. Devo tentare.”
    L'ultima volta i suoi poteri si erano attivati in automatico, non appena aveva iniziato a leggere le parole del libro che aveva davanti. Non aveva notizie del Lupo da un po’ di tempo ormai. Non era da lei non intromettersi in quello che stava facendo e soprattutto era strano che non dicesse la sua. “A quanto pare non vuole disturbarmi durante quest'operazione delicata e tanto importante per me. Meglio così.” Disse fra sé e sé, a bassa voce. In quell'atmosfera così silenziosa, dove anche i suoni del paesaggio esterno erano ovattati dalla neve, sentire la sua voce le provocò un senso di stranezza mai provato prima. Quasi non si riconobbe. Come se la frase pronunciata poco prima fosse stata detta da qualcun altro. Nonostante i vari pensieri che l'affliggevano e le distrazioni, iniziò a leggere. Una pagina, due, tre, quattro, venti: s’immerse in quella storia sempre più a fondo, talvolta anche rileggendo dei passaggi, con maggiore enfasi. C'era qualcosa di strano però. Per qualche strano motivo i suoi poteri non funzionavano. Perché non poteva viaggiare in quella storia? Perché non poteva entrare? Che non tutte le storie fossero aperte? Che servisse una determinata chiave per accedervi? Lesse ad alta voce, a bassa voce, sussurrando, ritornando sulle pagine che aveva già letto ancora e ancora, leggendo e rileggendo il finale. Trascorse più di un'ora così, in quello stato, leggendo convulsamente in attesa di qualcosa, di un segno, di un cambiamento. In attesa di qualcuno. Un fantasma, anche uno solo. Chiuse il libro guardandosi intorno. “È tutto come prima, non è cambiato assolutamente niente. Perché? L'altra volta ha funzionato, eppure non mi serviva a niente compiere quel viaggio... Ora che potrebbe permettermi di scoprire chi sono davvero non accade nulla? Perché? Non è... giusto!” urlò scagliando via il libro che atterrò dall'altra parte della stanza, aperto. Le ultime pagine ricaddero un po’ da un lato e un po’ dall’altro, silenziose.
    La domanda che premeva maggiormente Lucy era perché queste doti funzionassero al contrario. Continuava a chiedersi perché lei non potesse conoscere la sua storia o avere degli amici, mentre poteva leggere quelle altrui e parteciparvi. Qualcosa di caldo iniziò scorrere sulle sue guance. “Lacrime. Piango di nuovo, come sempre. Non so fare altro che piangere, piangere, piangere, piangere. In continuazione. Vorrei anche io essere come il Lupo. E non un agnello indifeso, solo e debole come sono ora.” Raccolse il libro e lo buttò a terra, accanto alla poltrona. Chiuso questa volta. “Ormai non mi serve più, non ha più nemmeno senso finirlo. Ora voglio andare a dormire, non ha senso continuare a disperarsi. Questa giornata mi ha distrutta.”
    Una volta sotto le coperte si girò a fissare il fuoco nella sua stanza, anche se a poco a poco anche quel fuoco si sarebbe spento. E avrebbe iniziato a fare freddo anche nella sua camera, tanto quanto lo faceva fuori. Chiuse gli occhi, per mettere fine a quella giornata. Dopo qualche istante tirò le coperte fin sopra la testa, nascondendosi del tutto. Si ricreò un suo spazio in quel silenzio, dove sentirsi al sicuro. La delusione era stata troppo forte e, questa volta, non c'era nemmeno il Lupo a consolarla. Poco per volta si accorse che non sentire la sua voce rimbombare dentro la testa, i loro battibecchi e i loro improvvisi e imbarazzanti scambi di corpi, la rendevano malinconica. Da un certo punto di vista le mancava quasi. “Dove sei finito, Lupo?” Chiese a se stessa, sperando che potesse sentirla. I minuti passarono e la ragazza si addormentò, esausta. Ma dopo un po' di tempo, qualcosa la svegliò.
    “Don. Don. Don. Don. Una... Campana?” Disse mentre si rigirava sotto le coperte, con gli occhi ancora carichi di sonno: probabilmente era ancora notte fonda. “Cosa sono tutti questi rintocchi? Di solito non ci sono orologi che segnano la mezzanotte qui all'orfanotrofio. Eppure a giudicare dal silenzio che permea l'intero edificio nessuno lo ha sentito...” Si fermò a guardare le fiamme: non erano rimaste che braci, che poco per volta si stavano spegnendo. La stanza era ancora calda, ma Lucy avvertì una leggera brezza, fredda, gelida provenire da un punto imprecisato fra quelle quattro mura. Un soffio di vento, quasi impercettibile. Che poco per volta iniziò a crescere, fino a raffreddare tutta la stanza.
    Si avvolse nellee coperte per non rischiare congelare. Cosa stava succedendo? Dal camino, all'improvviso, saltarono fuori alcune braci e un po' di cenere. Lucy si tirò su di scatto, stringendo le coperte. Spaventata, non riusciva a muovere nemmeno un dito. Non riusciva a far altro che fissare i resti di quelle fiamme. Un fumo leggero e sottile iniziava a salire dalla cenere caduta sul tappeto. “Se prende fuoco il Signor Blackthorn mi metterà in punizione! Eppure io non riesco a muovermi... Cosa sta succedendo?”.
    Poco per volta, però, accadde qualcosa. La cenere e le braci iniziarono a cambiare, ad accumularsi, mentre il fumo si avvolgeva su se stesso. “Quel fumo non è normale! Diventa sempre più denso”, e così continuò, fino ad assumere la forma di una grande sfera, al centro della stanza. Poco per volta quella massa informe prese a muoversi, a modellarsi, tentando di assumere una qualche forma strana, a lei sconosciuta. “E' come se si stesse trasformando in qualcosa... Lupo, sei tu?” Chiese con un filo di voce. Per quanto si sforzasse, il suono rimase intrappolato all’interno del suo corpo, a livello della gola. Uscirono solo alcune note, forse troppo deboli perché il Lupo potesse avvertirle o sentirle.
    Recuperata un minimo di razionalità, si fermò a pensare per un istante: il Lupo avrebbe dovuto sentirla comunque, a prescindere dal tono e dal volume della sua voce. “Eppure nella mia mente tutto tace, non c’è traccia della mia compagna di stanza – beh, non proprio di stanza, ma visto che vive anche lei qua lo è a tutti gli effetti”. Più fissava quella scena, più le sembrava che non fosse reale, che non stesse accadendo sul serio: era quasi come se stesse vivendo quel momento separata dal suo corpo, quasi fosse una spettatrice. Che si fosse scambiata con il Lupo di nuovo? No, lo avrebbe sicuramente avvertito. Passavano i secondi e continuava a fissare quella sfera di fumo, che ora si era bloccata. Un sussulto. Due. Tre. Iniziò a contorcersi, a ruotare. Si diffuse per la stanza per poi riunirsi ancora. A un certo punto esplose violentemente. Lucy si nascose sotto le coperte, cercando di ripararsi. Nulla di rotto o rovinato a causa dell’esplosione: tutto era ancora uguale, immutato, niente di rovinato o distrutto. Che quel movimento fulmineo fosse innocuo? Lentamente emerse dal suo nascondiglio. Una strana figura fece la sua comparsa. “Un... Un... Un fantasma?” Tirò su le coperte ancora di più, fino a lasciare scoperti solo gli occhi.
    "Ohohohoho! Perché ti nascondi dolce bambina?" Poteva parlare?Assomigliava a un uomo anziano, con una folta barba, i capelli bianchi e degli strani vestiti che sembravano provenire da tempi e luoghi passati. Il tutto contribuiva a donargli un'aria buffa e tutt'altro che minacciosa.
    "Chi sei?"
    "Io? Sono il fantasma di tutti i tuoi Natali passati ovviamente! Non mi hai forse riconosciuto? Mi pareva di averti vista da qualche parte poco fa, o almeno così mi è parso”. Quella risposta la paralizzò ancor di più. Ma questa volta, non fu colpa della paura. Gioia? Sì, forse. Perché quello poteva voler dire una cosa soltanto: i suoi poteri avevano funzionato! Che stupida! Probabilmente (era proprio giusto definirli così? Non le piaceva molto quel termine, anzi, non le piaceva per niente) non si erano attivati subito perché non era ancora la notte di Natale! Ecco la spiegazione! Saltò fuori dal letto, avvicinandosi allo spirito.
    "Buonasera mio caro spirito. Ti ho aspettato per molto tempo! Sei qui per mostrarmi i miei natali passati?"
    "Ma certo, mia cara! Vedo che sei già informata! Vieni, prendi la mia mano"
    Prese la mano che lo spirito le stava progendo: stranamente, era solida anche se lui era fatto interamente di fumo. “Meglio non fare domande, voglio solo scoprire com'è stata la mia infanzia!” Pensò, curiosa di sapere il più possibile riguardo alla sua vita prima di Heaven’s Feel. Tutta la stanza si riempì di fumo, iniziando a vorticare – il soffitto esplose rivelando il cielo notturno, mentre e i fiocchi di neve si unirono a quel turbinio in una danza senza sosta. E poi, come per magia, l’orfanotrofio sparì.
    Si ritrovarono entrambi in un altro luogo: una piazza...? No, non una piazza. C'era una vera e propria bufera di neve, e Lucy faceva fatica a distinguere bene le figure in mezzo a quel trambusto, anche se le loro ombre fecero la loro comparsa in mezzo al vento e ai fiocchi di neve che le colpivano il viso violentemente. Una serie di oggetti, che parevano essere delle rocce, sbucavano dal terreno – che fosse un.... Un cimitero? Cosa poteva centrare un cimitero con i suoi natali passati?
    "Spirito cosa vuol dire? Perché questo posto?" Le lacrime iniziarono già a rigare le sue guance, un terribile presentimento stava prendendo piede nella sua mente, nel suo cuore, quella sensazione terribile aveva invaso il suo corpo in un attimo. La risposta dell'anziana figura non si fece attendere: "mia cara, io non ho controllo sul tuo passato. Siamo qui perché questo è uno dei luoghi che contraddistingue i tuoi natali passati. O uno di essi particolarmente importante. Oppure riguarda coloro che ne hanno fatto parte – guarda, due di quelle lapidi sono molto vicine. Credo che potrebbero esserti famigliari, in qualche modo" disse lo spirito, mentre puntava il dito fatto di fumo verso un punto preciso, la tormenta si stava finalmente placando. Lucy era talmente agitata da non sentire nemmeno più il freddo.
    “Due? Famigliari? Oh no... I miei... Non può essere... Questo vuol dire che io non ho più... Ne ho mai... Nessuno verrà mai più a... A prendermi?” Un turbinio di emozioni avvolse la sua mente, la vista le si annebbiò all’improvviso. Le lacrime ora scorrevano copiose sul suo volto, lungo le guance fino al mento, per poi cadere a terra in piccole gocce. Se avesse potuto riunirle tutte l'una con l'altra probabilmente avrebbe potuto formare un oceano, ma neanche un luogo così vasto e sconfinato, di cui aveva letto nei libri e che tanto aveva immaginato, sarebbe stato abbastanza per descrivere la vastità del vuoto e del dolore che provava in questo momento. Lo spirito rimase in silenzio, senza proferire alcuna parola: rimase in quel punto, in totale silenzio e con le mani giunte dietro la schiena. Lucy iniziò a camminare verso le due tombe, lo spirito sempre fermo al suo posto. Non vedeva bene, le lacrime le impedivano di leggere i nomi correttamente senza avvicinarsi di più, mentre la neve di certo non aiutava. Ma proprio mentre stava per vedere i nomi scritti sopra le due lapidi con chiarezza, sentì un gran trambusto dietro di lei. Spaventata, si asciugò gli occhi con la manica del vestito, alzandosi con uno scatto. Anche il vento si placò all’improvviso: la neve ora cadeva leggera e soffice in grossi fiocchi. Si sentì una voce forte e pimpante, il cui tono le parve immediatamente familiare.
    "Ohi! Ohi! Ohi! Come osi far piangere una ragazzina, vecchio impostore?!"
    "Ma ma ma ma! Io non sono un... Impostore!"
    "Ah no?! Sei un ciarlatano! Come osi portare questa ragazza in un cimitero il giorno di Natale? Vuoi forse farmi perdere la pazienza? Ti meriti un pugno sul naso, vecchiaccio!"
    Una volta placata la tempesta, il paesaggio apparave a tutti più chiaramente. Il cimitero. Il fantasma. Le figure scure dei grossi alberi, probabilmente pini, che circondavano quel luogo. E dall'ombra, poco più in là, ecco emergere... Il Lupo! Vestita con il suo solito abito nero, molto corto – “ma non avrà freddo?!” Si chiese Lucy, improvvisamente stranita da quell’apparizione. Lo spirito, allibito, rispose "non ti permetto di trattarmi in questo modo!!! Senza di me non potete tornare indietro!! Devo far vedere a questa ragazza il suo passato!" Mentre costui stava ancora parlando, il Lupo, su tutte le furie, iniziò a camminare con passo deciso verso di lei, per poi afferrarla per il braccio. Prese a strattonarla, trascinandola verso lo spirito.
    “A-Aspetta! Che stai facendo?!”
    “Allora hai finito di chiacchierare? Riportarci indietro!”
    "Assolutamente no! Sono qui per fare il mio lavoro!"
    "Ho detto riportarci indietro ora, vecchio rimbambito!"
    "Lupo ma che stai facendo?!" Chiese Lucy ormai sconcertata.
    "Non ti permetto di.....!"
    Il Lupo colpì lo spirito con un fortissimo pugno, proprio sul naso, interrompendo la sua frase. Il fantasma fatto di fumo iniziò a gemere per il dolore, tenendosi il volto fra le mani. Il cimitero inizò a vorticare, Lucy si aggrappò al Lupo a causa del vento: dopo qualche istante si ritrovarono nuovamente nella sua stanza. Il Lupo, intanto, stava gridando al vecchio spirito di sparire, senza ascoltare le sue proteste, ricacciandolo nel camino con la sua forza sovrumana. La sua mancanza di grazie le donava un qualcosa di estremamente affascinante. Inoltre sembrava essere un asso della lotta.
    "Ma..... LUPO! Il mio passato! Io volevo... io DEVO conoscerlo! Non puoi...!!" Mentre Lucy tentava di protestare, arrabbiata per non essere riuscita a scoprire il suo passato, nuovamente, fu interrotta dal Lupo che le mise una scatola fra le mani. La guardò sbalordita. Un regalo? Con tanto di pacchetto e fiocchetto! Ma cosa stava succedendo?
    "Si be.... Ecco..... Non ti montare la testa eh! E' Natale! E tutti devono festeggiarlo! Anche tu! Quindi... Quindi sorridi! E sii felice, non è il giorno per piangere questo!" Lucy corse ad abbracciare il Lupo – questa prese a strepitare, urlando di lasciarla andare, che gli abbracci non erano cose che facevano per lei.
    Forse aveva ragione. Il Natale avrebbe dovuto essere un giorno felice da trascorrere con gli amici, con i fidanzati o le fidanzate, con la propria famiglia. Meglio, è un giorno da passare in compagnia di chi è importante, di chi ci rende felici: noi stessi inclusi. Perché non importa con chi: ciò che importa è passarlo con qualcuno che possa renderci felici e farci sorridere. E Lucy aveva imparato che le famiglie nascono nei modi più strani, fra le persone più strane: e che essere in pace con se stessi, prima che con il proprio passato, essere in pace con ciò che era in quel momento, era ancor più essenziale che la circondarsi di persone che la rendessero felice dall’esterno.
    “Si mio caro Lupo, hai ragione. Oggi non è il giorno giusto per scoprire il mio passato. Oggi è il giorno per essere felici e scartare i regali, il magnifico braccialetto con il ciondolo a forma di agnello che mi hai regalato. Ma inconsapevolmente mi hai fatto un secondo regalo, ben più importante. Mi hai donato il primo Natale con un sorriso. Grazie!”
    Lucy si svegliò di soprassalto, traendo un profondo e rumoroso respiro, come se fosse appena uscita da una lunga apnea sott'acqua. Scagliò via le coperte, ispezionando la stanza in cerca di un segno di quanto accaduto poco prima. Era stato tutto un sogno? O era accaduto realmente? Il fantasma, il Lupo, il cimitero... Si alzò, ma quando mosse il primo passo dopo essersi messa in piedi urtò qualcosa. Abbassando lo sguardo vide un pacchettino, avvolto con della carta colorata e un fiocco di seta. Lo raccolse, lo aprì e dentro trovò una sottile collana con un ciondolo dalla forma di Lupo.
    “È fatta con un materiale speciale” disse il Lupo, “spero ti piaccia.”
    “Tantissimo... Grazie!”
    “Potresti anche evitare di fare quello sguardo da ebete rivolto verso il vuoto, almeno guardami negli occhi” disse ancora la creatura, con la solita voce provocante. Negli occhi? Lucy si voltò verso la poltrona, d'istinto. E, seduta lì sopra, accanto al camino acceso, vide il Lupo in persona, con il suo solito abbigliamento e il solito sguardo beffardo che ogni volta mostrava i due canini acuminati. Si alzò, camminando lento e spavaldo. Ora era di fronte a Lucy, anche se era un po' più alta di lei la ragazza non provava timore questa volta. “Stavo macchinando questo piano da un po' di tempo, ho scoperto che quando viaggi nelle storie lasci una specie di porta aperta, dalla tua mente. Sono rimasta in silenzio per un po' e ho osservato quel che accadeva. Indovina? Ho trovato un passaggio ed eccomi qui!”.
    Si era liberata, dunque. “Ah e dimmi, chi era quel vecchio strambo che hai incontrato stanotte? Dì un po', non te l'ha mai detto nessuno che non si va nel bosco da sole senza essere accompagnate da qualcuno? Ma insegnano qualcosa in questo maledetto posto oppure no?” Disse mettendo le mani sui fianchi, con fare arrabbiato e ironico allo stesso tempo.
    Lucy l'abbracciò di nuovo, nonostante le proteste e gli interrogativi sulle immagini di quella non poi così terribile notte. I primi passi del Lupo, forse, avrebbero permesso di muoverne lei stessa altrettanti verso la libertà.


    Capitolo 14 - Controllo

    La ragazza che aveva prelevato dalla famiglia il giorno prima dormiva ancora. In qualche modo i sedativi che le aveva dato continuavano a fare effetto. I suoi assistenti avevano subito predisposto il laboratorio, seguendo i suoi ordini. Dopo circa un'ora avevano collegato i principali macchinari al cervello e agli organi della ragazza. Kuniko vide una serie di variazioni, instabili e irregolari, nelle onde cerebrali. Era come se, a ritmi irregolari, si sovrapponessero con la frequenza di quelle appartenenti ad altri soggetti. A un certo punto decise di ferirsi, utilizzando un bisturi, al braccio sinistro, osservando i cambiamenti. Il suo dolore aveva alterato, nello stesso preciso istante, il diagramma dell'attività cerebrale di Satomi.
    Kuniko ritornò alla sua postazione, richiamando i due assisenti. Doveva ricordarsi di sostituire i loro programmi con qualcosa di più aggiornato nei giorni successivi, non poteva permettersi alcun tipo di errore. "Ok, mi raccomando, quando vi do il via libera inserite il microchip che ho progettato". Una volta trasmesso quest'ordine digitò la password che comparve immediatamente sullo schermo. Spostò rapidamente le dita, strinse la finestra comparsa poco prima e la inviò nella direzione della ragazza con un gesto della mano. L'ologramma attraversò la testa di Satomi, raggiungendo il programma installato da Kuniko e sbloccandolo. "Se i miei calcoli sono corretti, dovrei riuscire a contenere queste variazioni d'onda e a mantenerle stabili". E mentre parlava aprì nuovamente una finestra virtuale, allargandola con le dita della mano destra. Ora tutto quello che accadeva in quella mente sarebbe apparso davati a lei. "L'empatia è un fenomeno curioso, anzi direi unico dato che lei è l'unico caso testimoniato ed effettivo! Soprattutto è l’unico caso di empatia derivante direttamente da un corpo umano e non robotico" disse riflettendo ad alta voce, "e se da un caso isolato diventasse più comune, potremmo studiarlo molto più a fondo, o comunque capirne gli svariati utilizzi". Non capiva perché si ostinava a parlare con qualcuno che non poteva sentirla. La ragazza era in uno stato di coma. I due uomini erano tutto fuorché umani. Da dove sbucava quella necessità di instaurare un discorso?
    La sua fede incrollabile nella tecnologia era ciò che le aveva permesso di arrivare tanto in alto. Quando lei aveva iniziato la scuola, il progresso in quella città aveva appena iniziato a emergere. Kuniko ricordava ancora il giorno in cui uno dei suoi insegnanti aveva spiegato alla classe composto dal gruppo di persone che era stata scelta per migliorare quel posto e renderlo "avanzato", le basi e il significato di quella parola. Quel termine era del tutto incomprensible per lei e per tutti i suoi compagni e compagneo almeno inizialmente. Scienziati e scienziate. Intelligenze superiori. Tecnologia. Quei termini lo erano forse ancora di più. O meglio, lo era il loro funzionamento perché cosa fossero lo sapevano tutti. Mentre lei cresceva, però, anche la città andava di pari passo con il suo crescere. E aumentava la sua comprensione di quei fenomeni, che l'attraevano sempre di più. La sua figura di riferimento divenne l'unica donna presente nel gruppo originario degli scienziati a cui era stato affidato l'esperimento di trasformare la loro città in qualcosa di migliore.
    Anno dopo anno Kuniko otteneva risultati sempre migliori. In breve tempo e ancora molto giovane, entrò a far parte di quel gruppo che tanto emulava. Difficile essere accettata da loro, la sua permanenza era durata poco tempo. "Persone con troppi scrupoli e scarsa fede nel progresso, molto più impreparata di quanto vogliano far credere". Questo aveva dichiarato, prima di ritirarsi come scienziata indipendente nel laboratorio da lei creato. Se per gli altri la tecnologia era qualcosa da promuovere, per Kuniko era addirittura una religione. Tutto poteva accadere per mezzo di essa, bastava trovare il modo. E se questo voleva dire poter studiare un fenomeno come l'empatia e riprodurlo a partire da quella ragazzina, poco importava. "Che mi dicano pure che non ho una morale" pensò fra sè e sè. "Quando tutti avranno questo nuovo giocattolo fra le mani se ne saranno già del tutto scordati". Inoltre le avrebbe salvato la vita. Perché mai lei avrebbe dovuto essere diversa dagli altri? Le persone di quella città erano la sintesi perfetta fra umanità e tecnologia, atte a raggiungere il massimo potenziale. Ormai le scoperte e gli agi non facevano nemmeno più scalpore: avrebbero comunque espulso quella ragazza, o l'avrebbero rinchiusa come avevano fatto i genitori. L’umanità non era contemplata, o almeno non in forma pura. Come mai stabilizzarla e non usarla come cavia da laboratorio, dunque? Kuniko evitò di porsi altre domande, indossando un casco azzurro collegato direttamente alla mente di Satomi.
    Il conto alla rovescia annunciato dal computer la distolse dai suoi pensieri. Una seconda finestra si aprì alla sua sinistra, mostrando le immagini vissute da Satomi.

    Avvio programma di ristrutturazione e analisi.
    Avvio programma di sovrapposizione prima persona.

    Ora, gli occhi di Kuniko erano gli occhi di Satomi. I due assistenti si disposero dietro di lei, pronti a intervenire. Sullo schermo fluttuante di fronte a loro, i pensieri della donna mentre vedeva tramite una mente empatica.
    "Nebbia. Tutto, intorno a me, è confuso. Non vedo nulla. Continuo a camminare ma non riesco a capire dove mi trovo. Forse in un bosco. Forse sto camminando lungo una strada. È come se non sentissi le gambe: cammino, cammino, cammino, cammino ma non arrivo mai da nessuna parte. Non fa freddo. Ma non fa nemmeno caldo. Solo nebbia. È come se mi trovassi in una gigantesca bolla separata da tutto il mondo esterno dove tutto è immobile e nulla cambia, né si muove. Nessun suono.
    Ma non sono sola. Lo so. Lo sento. "Chi c'è?" Provo a chiedere, ma la mia voce non esce. Non posso parlare? Faccio un secondo tentativo ma niente, dalla mia bocca non esce nemmeno un singolo suono. Devo fermarmi, non sto andando da nessuna parte, eppure continuo a camminare. Non controllo il mio corpo, sta andando avanti di sua spontanea volontà e non mi ascolta. Il silenzio di questo posto è spaventoso, a tratti sembra quasi di essere in un film muto in bianco e nero. Non si sente il benché minimo rumore. Qualcosa di freddo mi tocca la schiena. Non capisco cosa possa essere, so solo che improvvisamente il mio corpo si ferma e viene scagliato a terra. Non sento dolore ma improvvisamente vedo qualcosa su di me. Una figura scura mi sta colpendo ripetutatemente. Non so con cosa, forse con un’arma. Vedo sangue ovunque. Il mio sangue. Ma non sento dolore, urlo ma la mia voce non vuole decidersi ad uscire, cerco di difendermi ma il corpo del mio aggressore è troppo pesante e lui troppo forte. Urlo di nuovo. La nebbia si tinge di rosso.
    Una poltrona. Un tavolo con sopra numerosi attrezzi. Di fronte a me una porta chiusa, di legno. Sembra essere una di quelle porte molto vecchie, fatte con assi di legno, all'apparenza molto pesante. A illuminare la stanza alcune candele che producono una luce molto soffusa, permettendomi di vedere solamente una parte del luogo in cui mi trovo. Qualcosa mi sfiora i piedi, facendomi sobbalzare. Mi accorgo di non potermi muovere, sono legata. Sento delle catene che stritolano i miei polsi e le mie caviglie. La sedia a cui sono incatenata emette degli strani rumori quando mi muovo. Di nuovo la stessa sensazione. Qualcosa di viscido mi sfiora le gambe. Sussulto di nuovo. Non riesco a liberarmi. Ora la sensazione diventa più forte, continuata, qualcosa sta salendo lungo le mie gambe. Quando arriva alle ginocchia, nonostante la poca luce presente nella stanza riesco a vedere di cosa si tratta. È un serpente. Inizio ad urlare ed a dimenarmi, ma rimango intrappolata. Pochi secondi dopo un altro rettile sale avvolgendomi il braccio. E poi un altro. Ed un altro ancora. Mi fissano con i loro occhi vitrei e vuoti, la lingua biforcuta che continua a scattare. Il panico si impossessa del mio corpo, il respiro si fa affannoso. Mentre mi guardo intorno vedo molto movimento, ombre che si spostano, corpi che strisciano uno addosso all'altro. La stanza è piena di serpenti. Ora sono saliti anche sul tavolo. I loro corpi viscidi e squamosi si avvolgono uno con l'altro, avvinghiandosi in quella che pare essere una danza. Urlo di nuovo. E poi ancora. Tutto inutile. I serpenti si stanno arrampicando sul mio corpo, ora ne ho uno sulle spalle. Poco per volta si avvicina al mio volto, io cerco di scansarmi e di allontanarmi ma continua ad avvicinarsi. La sua lingua sfiora il mio naso. Urlo e mi volto di scatto chiudendo gli occhi. Quando li riapro uno di loro, enorme, la cui testa era grande quanto il mio busto intero, si solleva dal gruppo. Non avevo mai visto un serpente di tali dimensioni. E quegli occhi. Rossi. Ardenti come le braci di un fuoco appena spento. La sua lingua guizza rapidamente e spalanca le fauci. Urlo disperatamente mentre il rettile si scaglia contro di me per divorarmi.
    Riapro gli occhi in fondo a quello che poteva essere un oceano. Nuoto verso l'alto ma non raggiungo mai la superficie. Sono sommersa da un immenso muro d'acqua. Non posso riemergere. L'ossigeno nei miei polmoni si sta rapidamente esaurendo, vedo le bolle d'acqua che escono dalla mia bocca e dal mio naso andare verso l'alto, ultimi disperati tentativi di poter respirare. Il mio torace si contrae ripetutamente, non respiro, l'acqua invade i miei polmoni.
    Corro. Una strada circondata da alberi. A illuminarla una serie di lampioni. È notte fonda. Sento di non essere sola. Il mio respiro si fa pesante, sono esausta ma devo continuare a correre. Svolto a destra, poi a sinistra, nuovamente a sinistra. Ora proseguo. È dietro di me. Non mi lascia nemmeno per un secondo. Tutt'intorno si alza come una specie di foschia che rende i contorni degli alberi e i lati della strada ancora più lugubri. Sembra la scena di un film horror, quella in cui il personaggio corre, corre, corre ed alla fine viene catturato proprio quando sembra essere in salvo. Con un'unica differenza. La salvezza per me non esiste. Corro sapendo che nessuno arriverà a salvarmi. Corro sapendo che non arriverò da nessuna parte. Corro sapendo che ciò che mi insegue prima o poi mi prenderà. Una mano si posa sulla mia spalla. Mi fermo. Anche gli alberi, ora, sono silenziosi. Perchè non posso svegliarmi? Perché? Perché?
    Cibo. Cibo ovunque. Continua a cadere dall'alto, dalla cima di un altissimo ed enorme tunnel di cui non riesco a vedere la fine. Una luce. In alto. Lontana. È solamente un piccolo puntino luminoso. Il cibo cade da li. Una torta. Una brioche. Una baguette. Poco per volta si stanno accumulando un sacco di cose in questa piccola zona quadrata in cui mi trovo. Sono inchiodata a terra, con braccia e gambe allargate e immobili. Provo a muovermi ma niente da fare, è come se la gravità mi stesse schiacciando a terra impedendomi di rialzarmi. Il cibo continua a cadere. Vedo un'altra torta, che questa volta mi colpisce in pieno. Avverto il dolore che mi provoca quell'oggetto non appena mi colpisce. Avverto altro dolore quando una cotoletta ben cotta mi colpisce alla gamba. Il livello di cose da mangiare nella stanza sta aumentando rapidamente. Continua a salire, come in una stanza completamente sigillata che viene allagata. Sale. Sale. Sale. Sale. Senza fermarsi, lento ed inesorabile. Le cibarie che mi cadono addosso aumentano di dimensione, facendo sempre più male. Assieme al cibo iniziano a cadere anche varie bevande. Strano, non sento la sensazione di umido e bagnato che si sente di solido quando ci si versa addosso un qualunque tipo di liquido. Eppure continuavano a colpirmi, uno dopo l'altro, con tanto di contenitori e cannucce. Una pioggia inarrestabile di cibo e bevande. Ormai non sentivo più dolore. Ormai il puntino di luce che vedevo in alto era sparito.
    Svegliati. Svegliati. Svegliati!
    Apro gli occhi nella mia stanza. È tutto buio. Sento un brivido freddo lungo la mia schiena. Questi incubi mi hanno distrutta. Ho ancora paura adesso. Mi alzo, devo bere assolutamente dell'acqua, la mia gola è secca come un deserto. Apro la porta della mia camera ma una luce mi investe. Chiudo gli occhi e li riapro dopo qualche istante, lentamente, aspettando che si abituino a quel bagliore continuo. Sono in un supermercato. Non c'è nessuno, sono sola. Inizio a camminare, facendo scorrere i vari reparti. Tutto sembra essere perfettamente in ordine, ogni cosa al suo posto sul suo scaffale. Proseguo ancora e quando mi volto a destra vedo una strana figura. Un uomo vestito con giacca e cravatta. La sua testa però ha qualcosa che non va, è completamente bianca. Si volta, mi sta fissando. Un istante dopo è davanti a me. La sua faccia è malvagia, sorridente. Ma un sorriso inquietante, che trasuda malvagità. Dopo qualche secondo il suo volto inizia a cambiare. È come se il suo viso stesse subendo una strana centrifuga. Poco per volta gli occhi, la bocca, il naso iniziano ad avvolgersi su loro stessi.
    Spalanco nuovamente gli occhi. Sono di nuovo nella mia stanza. Cosa sta succedendo? Perchè continuo a sognare? Ero convinta di essermi svegliata poco fa... Non vedo nulla, la stanza è buia. Mi butto su un lato, allungando la mano per accendere la luce della lampada sul comodino accanto al letto. Afferro l'interruttore, pregando con tutta me stessa che la luce si accenda. Mentre lo premo chiudo gli occhi. Tick. La luce ora è accesa. Una donna, seduta sulla poltrona della mia camera. Mi sta fissando. Ha lunghi capelli neri, un fisico snello, una pelle bianca cadaverica. Ma i suoi occhi.... Le sue pupille sono.... Rosse. Un rosso scarlatto, come quelli del serpente gigante che ho incontrato poco prima nell'altro incubo. La donna si alza. Si sta avvicinando. Possibile che sia... Lei? La causa di tutti questi incubi? Che cosa vuole da me? Voglio urlarle di stare lontana ma non riesco ad emettere alcun suono.
    "Stai sognando parecchio ultimamente vedo"
    "Chi sei? Cosa vuoi da me?"
    "Qualcuno che ha bisogno di te, e a cui tu devi la vita"
    "Dimmi chi sei...."
    "Credi che Celestine ti abbia trovato per caso? Che ti abbia condotto qui senza che qualcuno le avesse messo la pulce nell'orecchio? O che quell'uomo ti avrebbe accolto senza che qualcuno ti avesse portata da lui?"
    "Cosa significa? Quale uomo? Chi è Celestine?" La donna che aveva portato la sua lettera. Ora ricordo. Ma cosa vuole da me? Non ricordava alcuna lettera... O forse sì.
    "Non ho alcuna simpatia per gli abomini come te, ma in fin dei conti nemmeno vi disprezzo. Finché non state tra i piedi. Ma tu sei speciale, mi servi, sai? È per questo che sei ancora in vita"
    "Di che stai parlando?"
    "A chi hai fatto consegnare quella tua lettera? Dimmelo!" Il petto e il braccio mi fanno malissimo. A stento riesco a rimanere sveglia. Allungo le braccia in cerca di una presenza. Di lui. Non lo trovo. Piango. Il cuore sembra scoppiare. Ricordo la strada. Colui che mi inseguiva. Il sangue. Ma non ero da solo. Non era solo il mio sangue "Dov'è Bryan?".
    Bryan? Chi è Bryan?

    Kuniko notò un cambiamento radicale. Il programma si stava indebolendo. Aprì di colpo gli occhi, stupita da quell'evento inaspettato. Iniziò a digitare furiosamente sulla tastiera, aprendo ulteriori pagine virtuali. Dopo aver inserito i codici necessari, trasferì uno di quegli ologrammi in quello contenente la vista di Satomi. Da dove arrivava quell'ultima visione? "Tu, muoviti" disse rivolta all'assistente dietro di lei, e non appena finì di pronunciare quella frase il suo ordine fu portato a termine immediatamente, senza specificare altro. Doveva localizzare quella persona. Come avevano fatto a mettersi in contatto? Il programma non era così potente.... A meno che....
    “A meno che lei non sia così forte da potersi connettere con ciò che stanno vivendo o stanno sognando le persone in diversi punti del nostro piante!”
    Riavviò il programma, modificato per essere più stabile.

    Ripristino programma di ristrutturazione e analisi.

    Ripresa modalità prima persona.

    Buio. Di nuovo. La strada con gli alberi. La nebbia. I serpenti. Acqua. No... Per favore... Non di nuovo. Altri mostri e altri esseri umani deformi. Altro cibo, una fame insaziabile e cibo con cui continuo a nutrirmi senza essere mai sazia. Alcol, un bicchiere dopo l’altro, senza mai nessuna fine. SVEGLIATI!! Sto cadendo nel vuoto. Di fianco a me vedo un altissimo edificio che continua a scorrere a una velocità impressionante. Urlo di nuovo. E ancora. E ancora. E ancora. Il sole colpisce i miei occhi chiusi. La luce intensa che filtra attraverso la serranda abbassata della finestra di camera mia mi costringe ad aprirli. Spalanco gli occhi traendo un respiro fortissimo, come se fossi rimasta in apnea e senza fiato per tutta la notte. Mi siedo di scatto, sollevando le ginocchia e portandole vicino al petto e prendendo la testa fra le mani. Sono... Sveglia? Mi guardo attorno, la stanza è in perfetto ordine. Guardo la sveglia. Tra cinque minuti suonerà.
    Finisco di prepararmi, indosso il cappotto e mi dirigo verso la porta di casa. Apro la porta, riflettendo su quanto era accaduto quella notte. Mentre esco la luce filtra attraverso di essa. Nebbia, ovunque intorno a me. Entra in casa, avvolge gli alberi. Avvolge tutto il quartiere. Mi ricorda.... Oh no.... Sono immersa nella nebbia. Le mie gambe iniziano a muoversi. Poi il buio."

    Chiusura programma di ristrutturazione e analisi.

    Kuniko si tolse il casco di scatto, spalancando gli occhi. Si alzò dalla sedia, avvicinandosi alla ragazza per osservarla più da vicino, in modo da poter notare eventuali cambiamenti fisici. A quanto pareva non subiva gli stessi effetti fisici di ciò che viveva, ma ne provava solo ed esclusivamente le emozioni. Bzzz. Bzzz. La luce calò all'improvviso, per poi riaccendersi. Bzzz. I robot che l'assistevano si erano bloccati e non rispondevano ai suoi comandi, la loro testa era reclinata in avanti senza compiere alcun movimento. Vide Satomi spalancare gli occhi. "Ma cosa diavolo sta succedendo?" Esclamò Kuniko, tentando di riguadagnare il controllo sul suo laboratorio che sembrava ormai impazzito. Stava forse canalizzando l'energia di tutte quelle emozioni? Se è così, si spiegava quell'incidente accaduto nella scuola tempo fa. Ma qual era il fattore scatenante? Sullo schermo a cui stava uno degli assistenti era comparso il nome di una città e di un luogo: Heaven's Feel. "Dunque è lì... Che sia stato questo a scatenare la reazione?"
    Satomi aveva richiuso gli occhi, riguadagnando il controllo perso poco fa. Lo sforzo era evidente sia dagli occhi strizzati e le mani strette a pugno, le gambe tremavano in modo incontrollabile. Kuniko uscì dal suo laboratorio un istante dopo, un dispositivo elettronico nelle mani, mentre digitava rapidamente sullo schermo: aveva parecchie cose da preparare, studiare e, soprattutto, riconsiderare. Come aveva fatto a raggiungere proprio quel luogo? Il nome era inconfondibile. La fama dell’orfanotrofio riecheggiava attraverso tutti i paesi fino alla sua città. Che Satomi si fosse connessa a quel luogo tramite i ricordi della stessa Kuniko?
    Mentre si chiudeva la porta alle spalle, lanciò un’ultimo sguardo in direzione della stanza in cui riposava la ragazza. “Forse non sono ancora pronta a perdere tanta umanità”. E così dicendo, chiuse la porta per poi allontanarsi.


    Capitolo 15 - A ognuno la sua prigione

    A causa di tutti gli avvenimenti recenti, i cambiamenti e quanto era successo la notte di Natale, Lucy si era completamente dimenticata della lettera che aveva ricevuto da quel ragazzo misterioso un po' di tempo prima. Non si era ancora abituata alla presenza costante del Lupo, che ormai non era solo più qualcosa di mentale, limitato alla sua testa, ma qualcosa di fisico, presente, vivo. Ma doveva anche ammettere che avere qualcuno con cui parlare e che le facesse compagnia ogni volta che tornava nella sua stanza era piacevole, aiutava a sopportare meglio quelle lunghe giornate rinchiusa in quel posto.
    “Dovremmo andarcene, in fin dei conti sappiamo badare a noi stesse! Ho forza sufficiente a buttare giù questi vetri e portarti via!” Disse il Lupo improvvisamente quel giorno. Lucy lo guardò sbalordita, mentre stava ripiegando il foglio di carta sul quale aveva scritto la risposta per il misterioso mittente della precedente lettera. “Sei impazzito? Non possiamo! Il Signor Blackthorn ci troverebbe, e non mi va di abbandonare le altre! Soprattutto Celestine! Non posso sparire senza dirle niente, non sarebbe giusto!”
    “Ti fai troppi scrupoli, non mi stupisce che tu sia ancora chiusa qui dentro”
    “Perché devi essere sempre così cattivo?”
    “Esattamente per la stessa ragione per cui tu continui a darmi del lui!”
    “Ma tu sei il Lupo!”
    “Ti sembro un uomo?”
    “Ma nella storia...”
    “La storia, la storia, la storia... Nella storia tu non esistevi nemmeno, eppure sei comparsa dal nulla, senza che nessuno sapesse il tuo nome o chi fossi! Chi ti dice che il libro da due soldi che hai letto dicesse la verità? Ma in effetti mi piace questa cosa del doppio” disse pensosa il Lupo. “Mi hai convinto! E convinta! Hai convinto entrambi i me” continuò trionfante, mettendo le mani sui fianchi.
    “Io... Non lo so! Chi ti capisce è proprio bravo! Fammi finire di scrivere la lettera!”
    “Prego, io sono stanca di stare qua in questa stanza, vado a farmi un giro” Disse aprendo la porta. Lucy scattò dalla sedia, inseguendo il Lupo. La prese per il braccio, cercando di trattenerlo. “Sai che posso farti volare via con un soffio, vero?” Fu la risposta irritata della creatura.
    “Non puoi farti vedere in giro! Hai idea di cosa rischieremmo?”
    “Sì, ma so anche quel che rischiano le persone che si mettono sulla mia strada. Con il tuo permesso, principessina, gradirei farmi un giro per questo edificio noioso” Concluse liberandosi di lei in men che non si dica. Richiuse la porta dietro di sé, senza dar tempo a Lucy di rispondere. E ora? Se qualcuno avesse visto il Lupo si sarebbe cacciata in un mare di guai, per non parlare della rabbia dei Signori Blackthorn! Ma dov'era Celestine quando aveva bisogno di lei? Era l'unica in grado di tenere nascosto agli altri quella creatura così diversa da loro. Avrebbe potuto portarlo a fare un giro nel parco!
    Un istante dopo, come per magia, la donna bussò alla porta della stanza. Indossava un abito che arrivava fino alle caviglie, nero. Davanti portava un grembiule rossiccio, leggermente macchiato. “Mia dolce Lucy, che fai qua davanti alla porta? Mi stavi aspettando?”
    “Celestine! Finalmente sei arrivata! È accaduta una cosa molto strana... Io... Non so proprio da dove cominciare, penserai che sono pazza!” Farfugliò la ragazza, in preda alla confusione e all'agitazione più totali.
    “Calma, calma! Di cosa vuoi parlarmi? Ti riferisci forse alla strana ragazza che ho visto uscire da questa stanza poco fa?”
    Il cuore di Lucy aveva perso un battito. Per un attimo si era fermato. Dunque l'aveva vista in giro. “Devi fermarla, se i Blackthorn... Voglio dire, se i Signori Blackthorn dovessero vedere il Lupo per me sarebbe la fine!”
    “Oh, e io che speravo in una narrazione più avvincente!” Rispose la donna, abbandonandosi a un dolce risata mentre portava la mano destra sulla fronte. I suoi capelli castani erano raccolti in un'acconciatura che lasciava liberi alcuni boccoli, che ricadevano dolcemente ai lati del viso. “Fossi in te non mi preoccuperei per il Lupo, penso proprio che sappia il fatto suo, sai?”
    “Ma... Come fai a sapere che si tratta di un Lupo?” Rispose stupita la giovane.
    “Sai che io so sempre tutto, mia dolce Lucy” Disse Celestine, sfiorando delicatamente la guancia della ragazza. “Piuttosto! Hai qualcosa da consegnarmi?” All'improvviso si ricordò della risposta alla lettera che aveva scritto e preparato apposta per lei. Una volta consegnato il foglio nelle mani di Celestine, chiese impaziente: “come sta? Non ho idea di chi sia, ma sono davvero preoccupata... È davvero una brutta persona come ci ha raccontato il Signor Blackthorn?”. Dopo questa domanda, vide gli occhi della donna guardare verso il cielo.
    Con un sospiro, Celestine rispose all'ingenua domanda della fanciulla: “voi ragazzi vi fate suggestionare troppo da quei racconti! A te che impressione ha fatto la sua lettera?”
    “Mi... Mi è sembrato un bravo ragazzo, mi spiace tanto che debba rimanere chiuso in quella stanza” Rispose lei. Anche se non poté fare a meno di pensare anche alla propria situazione: era poi così diversa come il Signor Blackthorn diceva?
    “E allora smettila di preoccuparti inutilmente. Un giorno, forse, riuscirò a portarti da lui... Anche se credo che qualcuno di tua conoscenza sia diretto proprio laggiù”. La donna nascose la lettera e si spostò verso la porta, aggiungendo mentre usciva: “bene, se non hai altro da darmi o da dire, per oggi torno alle mie faccende cara, ho molte cose da fare! A presto!” E così dicendo chiuse la porta alle sue spalle, incamminandosi verso la stanza successiva. A quanto pareva lui aveva ragione, il libro era quello giusto per lei.
    Quell'edificio enorme era davvero strano. Era diviso in una serie di piani tutti uguali, sempre gli stessi identici corridoi pieni delle stesse identiche stanze contraddistinte dalle stesse identiche porte. Non c'è da meravigliarsi che il Lupo, dopo aver camminato per un bel po' curiosando di qua e di là non sapesse più dove si trovava. La buona notizia era che nessuno, per il momento, si era accorto della sua presenza. O forse era meglio dire nessuna? Dopo tutto si trovava nel dormitorio femminile di Heaven's Feel, quindi era impossibile che ci fossero dei “nessuno”. O almeno così pensava. “Quando ero Lupo non mi sono mai interessato di queste cose.... Anzi, com'è possibile che io mi ritrovi a fare certi ragionamenti? Che differenza potrebbe mai fare? Quella ragazzina e la sua mania per le parole e la lettura devono avermi contagiata! O forse anche lei è stata contagiata da qualcun altro? Bah!” Disse fra sé e sé, senza accorgersi del tono di voce che stava usando. Sentì una porta scricchiolare, qualcuno (o qualcuna? “Ok basta!”) stava uscendo a vedere chi avesse parlato. Fortuna che le sue gambe e i suoi muscoli erano più che reattivi, e in un istante era già sparita dall'altra parte di quel lungo corridoio.
    “E ora dove sono finita?” Si chiese confusa, incrociando le braccia. Le sue orecchie non captavano alcun rumore, se non qualche parola pronunciata in lontananza o all'interno di quelle stanze silenziose. Gli abitanti di quel posto non avevano alcun contatto l'uno con l'altro, o l'una con l'altra, l'uno con l'altra, oppure ancora l'una con l'altro. “Dovrei seriamente smetterla, anche se ci sto prendendo gusto con questi giochi di parole” pensò allegro il Lupo. Era così pensieroso che non si accorse di essere capitato in un corridoio diverso dai precedenti. Quello in particolare possedeva un pezzo in più, a differenza di tutti gli altri che si interrompevano e non proseguivano. Le luci erano del tutto assenti, nessuna torcia, nessuna fiamma. “Evidentemente non sono abituati ad avere dei lupi che passeggiano per i corridoi, il buio è tutt'altro che un problema per me” disse sorridendo, poco prima di addentrarsi in quell'angolo buio e oscuro. I suoi sensi erano tutti in allerta, nonostante il suo fare rilassato. Il silenzio era ancora più inquietante e profondo di quello nel resto dell'edificio.
    Dopo aver camminato per un periodo di tempo imprecisato, il Lupo sentì alcune voci. Aguzzò le orecchie, continuando a muoversi verso quella direzione, ma questa volta facendo molta più attenzione a non fare il minimo rumore. A un certo punto vide una sottile lama di luce fendere l'oscurità in verticale. Probabilmente era una porta aperta. “Dunque c'è una stanza... Ma chi potrà mai vivere in un posto così isolato e dimenticato da tutti?” Si domandò mentre si avvicinava sempre di più, iniziando a percepire più chiaramente i suoni che provenivano dalla fine di quel corridoio. Le venne in mente il discorso di quell'uomo che sbraitava e si sbracciava nel salone, urlando parole che tanto avevano spaventato Lucy e che a lei avevano provocato un gran rabbia. “Perché sto pensando a quel perfetto idiota?” si domandò, dandosi una risposta subito dopo: “chissà perché temo di sapere chi troverò in questa stanza”. Sottile ironia? Probabile. Camminò ancora, ormai prossima alla porta aperta. Per fortuna, il suo istinto di cacciatrice non era sparito. Ormai aveva raggiunto la porta, si era nascosto dietro di essa, in modo da non essere visto, ma sufficientemente vicino da riuscire a sentire quanto stavano dicendo le persone al suo interno.
    “Pensi che io non sia a conoscenza degli spostamenti di Celestine, vero? Pensi che io non sappia che ti ha messo in comunicazione con qualcuno?” Chiedeva con fare insistente una voce femminile. Con qualche sforzo, qualcuno rispose. Era la voce di un ragazzo, piuttosto debole ma comunque ben chiara alle orecchie del Lupo. “Io non ho idea di cosa lei stia parlando... Dove mi trovo? Perché mi tenete confinato in questa stanza?”
    “Dovresti mostrarmi un po' di gratitudine! Senza di me saresti rimasto la fuori a morire!” Disse lei alzando la voce e lasciando trasparire un certo grado di nervosismo. “Io lo so che cosa ti hanno fatto quegli uomini, e lo sai anche tu! Menti perché non vuoi ricordartelo, ma sappiamo anche benissimo che non eri da solo! Che fine ha fatto l'altro, eh? Dov'è sparito? Scommetto che ormai di lui non è rimasto assolutamente nulla!”.
    Il ragazzo rimase zitto per un po'. Il Lupo sentiva che il suo respiro si era fatto irregolare, probabilmente stava piangendo. “Come fate a sapere che non ero... Che non ero da solo? Come?”.
    “Come? Chi pensi che abbia messo quelle persone sulle tue tracce?”
    “Cosa... Perché? Ci hanno aggredito... E... E Bryan è sparito, lasciatemi uscire!”
    Dunque stavano parlando di una terza persona. Il Lupo aveva ormai capito dove stavano andando a parare, e qualcosa gli suggeriva chi fosse quel Bryan di cui il ragazzo tanto parlava. Possibile che quella donna avesse commesso una crudeltà simile? Il Lupo strinse i pungi, mentre la conversazione andava avanti. Nell'oscurità, il bianco delle sue zanne iniziò a brillare, come un faro nella notte. Un semplice balzo. Pochi metri. E lei sarebbe morta.
    “La prego, io... Io non ho fatto niente di...”. Che stesse piangendo ormai era chiaro. Ma tutto ciò che il Lupo sentiva in quel momento era l'odore del sangue. Il suo istinto stava prendendo il sopravvento.
    “Non hai fatto niente? Tu sei la rovina per la specie umana, tu sei il male in persona.... Non hai sentito quello che ha detto mio marito? E ha ragione!” Disse la donna, ormai urlando. Il rumore dei suoi passi raggiunse la porta, se ne stava andando. Ma poco prima di uscire, si trattenne ancora per aggiungere un'ultima cosa: “tu non te ne andrai da qui, sei qui per un preciso scopo! Mi servi, sei il suo grande punto debole, quelli come te sono la sua più grande debolezza! E io l'ho capito, sai? L'ho capito!” Aggiunse con voce tagliente, una nota di odio in quelle parole. “Non potrei mai permettere che tu ritorni libero, in mezzo alle persone normali! Ma qui mi sei utile... Sì, ti terrò qui per un po' ancora, il tempo di sbarazzarmi anche di lui”. Esitò un attimo, probabilmente stava osservando gli effetti di quanto aveva detto sul volto del ragazzo.
    Il Lupo ormai era vicinissimo. Quella preda così facile. Così vicina. A un passo da lui e totalmente vulnerabile, inconsapevole del destino che l'attendeva. Un passo. Due. Tre. La porta si aprì leggermente. Ma proprio un istante prima che balzasse addosso a lei per soddisfare quella sua improvvisa voglia di giustizia, una mano lo trattenne per il braccio. Come aveva fatto a non accorgersi di quella presenza? Una donna lo stava tenendo fermo, il dito indice poggiato sulle labbra intimandole di fare silenzio. Era del tutto mimetizzata nel buio, grazie al suo vestito di colore nero. In un attimo la riconobbe: Celestine, la domestica di cui tanto parlava Lucy e che spesso faceva visita alla loro stanza per mettere in ordine. Incredulo, il Lupo rimase immobile, nascosto nell'oscurità e trattenuto dalla misteriosa signora comparsa dall'ombra. Un istante dopo la porta si aprì e un'altra figura ne uscì quasi correndo. Lunghi capelli neri svolazzavano dietro di lei, non possedeva alcuna torcia per illuminare il suo cammino. Sembrava perfettamente a suo agio in quel buio totale.
    Non si accorse di loro, e non appena sparì del tutto nel corridoio, la donna lasciò andare la presa. Il Lupo rimase immobile a fissarla, senza sapere cosa dire (e il che era strano per qualcuno come lei). Celestine si mosse, entrando nella stanza, lasciando lì il Lupo, da solo a pensare a quanto era appena accaduto nella totale oscurità. Qualche istante dopo prese coraggio ed entrò anche lei.
    La stanza era illuminata a fatica, le tende erano tirate. La misteriosa domestica era seduta sul letto, accanto a un ragazzo che, appoggiato alla sua spalla, piangeva disperato. Il Lupo iniziò a girare intorno al letto, curiosando per tutta la stanza. Non c'era nulla di rilevante, era priva di arredamento a parte il letto e un piccolo mobile di legno composto da enormi cassetti. Si voltò verso il ragazzo: aveva corti capelli neri e un fisico molto fragile. Non riusciva a scorgere i suoi occhi, ma a giudicare da quel che vedeva era dotato di lineamenti molto fini, anche se il lungo tempo rinchiuso doveva averlo debilitato parecchio. La coperta era ricaduta, lasciando intravedere il busto ricoperto di bende, alcune macchiate di rosso. Sangue? Eppure non era quel sangue ad aver attirato la sua collera e il suo istinto poco prima. I muscoli su quel corpo erano ben delineati, quasi come fossero stati scolpiti.
    Il Lupo fece alcuni passi, raggiungendo il mobile e sedendosi sopra. Incrociò le gambe, si schiarì la voce in modo da attirare la loro attenzione prima di parlare. Il ragazzo sobbalzò, non aveva capito che in quella stanza non si trovava solo con Celestine. Guardò la strana figura, mai vista prima. La strana creatura dalle orecchie di Lupo lo stava osservando, e poco dopo fece una domanda, rivolta alla donna seduta accanto a lui: “Bene, mi spiace interrompere un momento commovente, ma credo vi convenga dirmi chi siete! Specialmente tu, mia cara domestica”. La voce, come al solito, era ironica e provocante. “Oh! E siete pregati di muovervi, non ho tutto il giorno per stare a sentire le vostre storielle! Ma ho come l'impressione che la nostra Celestine, qui, non sia semplicemente una donna al servizio dei due simpaticoni che possiedono questa baracca” e così dicendo poggiò la testa sul palmo della mano, gli occhi fissi su quella signora dall'abito lungo e nero, che ricambiava il suo sguardo. Voleva delle risposte, e le avrebbe avute in un modo o nell'altro.


    Edited by AlexMatteh - 24/12/2018, 21:16
     
    Top
    .
  2.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Plus
    Posts
    126
    Anormalità
    +7
    Location
    Dal luogo in cui si fondono perfettamente Luce ed Oscurità

    Status
    Fine volume 4
     
    Top
    .
  3.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Master
    Posts
    1,267
    Anormalità
    +10

    Status
    CITAZIONE
    Il mio giudizio su questa parte già lo conosci e non può che essere positivo. Nota di merito particolarmente per lo svilupparo del rapporto tra Lucy e il Lupo (che, poverino o poverina, sembra confuso dal nostro maschile/femminile... o forse si diverte anche?), mentre dall'altra sono da segnalare alcuni refusi ed errori di battitura.
    EXP: 17
     
    Top
    .
2 replies since 19/10/2018, 22:27   52 views
  Share  
.
Top