[CONCLUSA] Esistenze Congiunte, Volume 5

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    Capitolo 16 - In viaggio

    Quel giorno in tutta la capitale arrivarono notizie di un incendio, in una zona poco fuori dalla città all'interno di uno dei quartieri di periferia. Nonostante gli avanzati sistemi di controllo dei danni e antincendio sviluppati dalla capitale della tecnologia, nessuno era stato in grado di prevederlo. Le autorità riuscirono a ridurre il panico dilagante e la paura delle persone, mentre ai vertici del consiglio dei più alti maestri tecnocrati si stavano vagliando tutte le varie possibilità. Le fiamme avevano distrutto un intero edificio, senza lasciare alcuna traccia visibile di cosa si trovasse prima in quel posto. Gli esperti, però, sapevano che si trattava di qualcosa di programmato. Se si fosse trattato di un incidente il sistema lo avrebbe rilevato come tale, dopotutto erano la città con il minor numero di incidenti – praticamente pari a zero. I loro sistemi erano infallibili, a meno che qualcuno non sapesse come disattivarli. Un infiltrato? O forse qualcuno che voleva nascondere un'attività illegale e distruggere tutte le tracce una volta abbandonata. Supposizioni. L'unica certezza era che si trattava di qualcuno che con la tecnologia ci sapeva fare.
    Quando le indagini sull'accaduto furono avviate, Kuniko si trovava già parecchio distante dal luogo dell'accaduto. E Satomi era con lei. Stavano viaggiando su una macchina a una velocità che presto mise svariati chilometri fra loro e la città da cui erano partite. La giovane ragazza iniziava a sentire una certa emicrania a causa della tensione della sua compagna di viaggio. Ma rispetto a qualche giorno prima il mal di testa e gli effetti collaterali della sua empatia si erano quasi del tutto placati. Cosa le aveva fatto durante quel coma a cui l'aveva costretta?
    “Smettila di fissarmi con quello sguardo interrogativo, non hai quasi distolto gli occhi da me da quando abbiamo lasciato quel posto maledetto!” Disse Kuniko, che ormai aveva perso la pazienza. Aveva perso tutto, il laboratorio, i suoi assistenti, a stento aveva fatto in tempo a prendere alcune cose. Non sapeva nemmeno come avrebbe potuto reagire il programma che aveva installato nella ragazza senza gli strumenti necessari a tenerlo sotto controllo. E tutto per cosa? Non lo sapeva nemmeno lei. O forse, non voleva ammetterlo.
    “Scusa, è che la tua agitazione mi fa venire un gran mal di testa... Credo che il mio potere sia ancora difficile da tenere a bada, mi spiace...” Fu la risposta della ragazza. Prese a specchiarsi nel vetro accanto a lei: il suo aspetto era cambiato moltissimo da quando aveva conosciuto Kuniko. I suoi capelli erano diventati azzurri ed erano leggermente più corti di quanto ricordava. Gli occhi avevano lo stesso colore del ghiaccio. Per il resto, il suo corpo era più o meno lo stesso di prima, L'unica differenza era che ora le voci, i sentimenti, il dolore, l'amore, la passione, la paura e tutte le altre centinaia di emozioni provenienti dalle altre persone erano distinte, separate e meno potenti di prima. Rischiava comunque di perdere il controllo facilmente se posta sotto una pressione troppo elevata, ma non poteva nascondere di sentirsi decisamente meglio.
    “Se te lo stai chiedendo, ho installato un programma nella tua mente che serve a ridurre lo stress e la confusione causato dalla tua empatia, separando e monitorando le varie emozioni, raccogliendole in file ben distinti e archiviando le informazioni!” Iniziò a spiegare Kuniko, mentre la ragazza la osservava stupita. “In pratica ora sei connessa addirittura con più persone di prima, solo che lo fai in modo migliore e più ordinato, nel caso ti interessasse penso ci si possa riferire alla tua mente come a un network” continuò, ignorando la faccia stranita di Satomi che faceva fatica a comprendere tutti quei ragionamenti. Com'era possibile che capisse così poco di tecnologia? Erano concetti elementari!
    “Io... Uhm, credo di aver capito, sì” Fu la risposta, breve e confusa.
    “Ho dovuto distruggere tutto il mio laboratorio, quindi ora non so come stia procedendo il programma, visto che non ho avuto alcun soggetto su cui testarlo prima di te... Ma almeno pare che il tuo potere sia sotto controllo ora, giusto?”
    “Sì, mi sento molto meglio, anzi riesco a sentire chiaramente le emozioni ma senza farmi sopraffare da tutto quello che gli altri provano! Perché hai distrutto tutto?” Chiese Satomi, curiosa. Ma non poté non notare, a quella domanda, il cambiamento d'umore di Kuniko. “Non ti ricordi proprio nulla, eh?” disse lei con tono ironico, voltando per un attimo lo sguardo verso di lei, prima di tornare a concentrarsi sulla strada e aggiungere: “La tua empatia è andata del tutto fuori controllo, hai mandato in tilt anche i miei due assistenti! Ho dovuto eliminare le prove perché dal quartier generale sicuramente avrebbero rilevato un picco di energia tanto alto... I sistemi sono fatti per tenere sotto controllo disturbi e variazioni, di modo da interrompere immediatamente ogni azione di disturbo o che potrebbe generare caos nella città.” Lo sapeva perché aveva progettato lei alcuni di quei sistemi, motivo per cui li aveva disattivati piuttosto facilmente. Le sue conoscenze all'interno del centro di ricerca principale sicuramente avrebbero capito di chi si trattava, ma per lo meno avrebbero avuto tempo di dirigersi lontano senza essere rintracciate.
    “Oh... Mi dispiace tanto, anzi, grazie per avermi aiutata a gestire la mia... Empatia?” Chiese Satomi, assumendo ancora una volta lo stesso sguardo interrogativo di poco prima.
    “Sì, empatia! Possibile che tu non conosca nemmeno questa parola?”
    “Ecco... Sì, hai ragione, ti chiedo scusa... La mia carriera scolastica non è stata brillante, almeno, lo era all'inizio... Poi... Poi è successo quel brutto incidente e da allora i miei genitori hanno scelto di non farmi più andare a scuola... Hanno preferito che io, ecco, rimanessi a casa in modo che nessuno mi vedesse...” Mentre parlava, Satomi abbassò lo sguardo, gli occhi umidi per le lacrime. Non serviva alcuna empatia per capire che aveva sofferto parecchio per quel dono – o maledizione? Kuniko shioccò la lingua, volgendo lo sguardo di nuovo lungo la strada. Ogni dono poteva trasformarsi in una maledizione, erano le circostanze a determinarlo. E quella, per lei, era una certezza. La sua stessa tanto amata tecnologia aveva due facce: utile e malvagia, promettente e pericolosa. E anche quei due aspetti dipendenvano dal contesto e da chi ne faceva uso.
    “Immagino non volessero finire emarginati, oppure temevano che qualcuno ti avrebbe resa normale in qualche modo strano e pericoloso, e forse era questo quello di cui avevano paura davvero” rifletté Kuniko, mentre continuava a fissare la strada. Ormai quella era l'ultima piccola città collegata alla capitale centrale, inclusa nel sistema di comunicazione studiato dal centro di ricerca di cui anche lei aveva fatto parte. Per tutto il resto del viaggio Satomi rimase in silenzio, osservando fuori dal finestrino il paesaggio che sfrecciava, una casa dopo l’altra.
    Quella sera si fermarono in quella che sembrava essere una locanda, o una taverna. Era passato moltissimo tempo da quando ne aveva vista una, tutte le persone si potevano collegare e riunire anche a distanza, quindi quei luoghi erano caduti in disuso molto rapidamente nella capitale. Ma man mano che si avvicinavano alla loro destinazione probabilmente ne avrebbero trovate sempre di più. Lì in quei luoghi i metodi di incontro tradizionali erano molto più diffusi. Che strana parola, tradizionale. Aveva moltissimi significati, che spesso si confondevano tra loro. Che ancor più spesso, però, erano male interpretati. Sentiva davvero la mancanza di tutto ciò? La tecnologia non le aveva forse spazzate via tutto per far spazio a nuove e rinnovate “tradizioni”? Era giusto cambiarle? Sì, alcune erano profondamente sbagliate. Lo sapeva. Ma non bastava la scienza a cambiarle, anzi, spesso le tradizioni sbagliate con l'avanzare del progresso risultavano ancora più marcate. E Kuniko, questo, lo sapeva molto bene.
    Satomi aveva chiuso a chiave la porta della stanza che l'avrebbe ospitata per quella notte. Essendo all'ultimo piano, una finestra le permetteva di scorgere tutti i tetti e le strade di quella piccola città, arrivando fino alle immense distese di campagna lontane. Un immenso silenzio regnava in quel posto. Pace. Tranquillità. Fuori così come dentro la sua testa. Le persone dormivano, e grazie a Kuniko lei non avrebbe più vissuto i sogni di nessuno, se non i suoi. Eppure, mentre era intenta a fissare il paesaggio malinconica, ripensando alla sua famiglia e agli avvenimenti recenti, qualcosa catturò la sua attenzione. In lontananza, un'emozione brillava e si sentiva più potente di tutte le altre. Era come una piccola fiamma, in mezzo al gelo, in mezzo a tanti piccoli fiocchi di neve. E li scioglieva tutti, inesorabilmente. Non c'era gelo o freddo notturno che potesse spegnerla. L'unico problema era che quella fiamma era tutt'altro che positiva. Era lo stesso dolore che aveva provato ad un certo punto durante il coma indotto da Kuniko. Lacerante. Forte. Prolungato. Insanabile. Cresceva sempre di più, senza fermarsi mai. Qualcosa, però, lo alimentava. Lo rendeva sempre più forte. Una lacrima scese lungo la guancia di Satomi, senza che lei se ne rendesse conto. Portò d’istino la mano verso il volto, per asciugarla. E se non si fosse trattato dell’emozione di una persona sola? Ma di tante, tantissime tutte assieme? Quella domanda, però, non poteva trovare alcuna risposta in quel momento – o almeno, non finché non si fosse recata sul posto di persona.
    Cosa doveva fare? Doveva forse informare la sua compagna di viaggio? Sentiva che si stavano avvicinando... Ma perché Kuniko voleva andare in quella direzione? L'istinto le diceva che qualcosa non andava. E soprattutto, che quella o quelle persone avevano bisogno del suo aiuto. Cosa avrebbe fatto da sola? Non sapeva nemmeno nulla del suo nuovo “programma”, né di come gestirlo. Lasciò la sua stanza, dirigendosi verso l'altra che avevano preso per quella notte. Salì alcune scale, visto che si trovava al piano di sopra. Una volta giunta a destinazione, trasse un profondo respiro. Bussò. Una volta. Due volte. Sentì una certa agitazione, poteva avvertirlo chiaramente. Un’ondata di sensazioni nuovi la investì oltre la porta. Cosa stava accadendo? Aprì, preoccupata.
    Si trovò di fronte un ragazzo, dai capelli neri, molto corti. I suoi occhi sbarrati e increduli la osservarono per un istante, prima di coprirsi nei punti che lo mettevano più in imbarazzo. Era nudo e di fianco a lui si trovava uno specchio. “Cosa... Cosa ci fai qui?” Chiese lo sconosciuto. Satomi fece un passo indietro, allarmata. Confusa. Le emozioni che provava erano quelle di Kuniko, ma lei non c'era. Al suo posto, c'era un altro ragazzo. Dov'era finita?
    “Che... Che ne hai fatto di Kuniko? Dov'è? E tu chi sei?”
    Gli occhi stupiti del nuovo arrivato si rilassarono, accennando a un sorriso. “Non ti hanno insegnato che quando si bussa si aspetta il via? D’altronde sei stata abituata a vivere in una stanza in cui tutti entravano a loro piacimento, e da cui non potevi” Disse lui – la sua voce era profonda, ma allo stesso tempo conservava un che di familiare, di riconoscibile. Si mosse per potersi vestire, mentre Satomi copriva gli occhi per non guardare. Quando si rivolse a lei, la sua voce era cambiata. Al suo posto c'era quella di Kuniko, anche se quello non era l'unico cambiamento: lentamente, i capelli iniziarono a tingersi di rosso, mentre il seno iniziò a crescere. Le linee di quel fisico cambiarono, assumendo sempre di più fattezze femminili. Di fronte a lei, ora, c'era di nuovo Kuniko che la stava guardando con aria soddisfatta. Poteva sentire il trionfo provenire da quel corpo, non era solo nel suo sguardo. “Beh, non hai niente da dire Satomi?”.
    “Io... Tu... Ma come... Che hai fatto?”
    Kuniko si rivestì, ignorando la domanda. Si avvicinò ad un tavolo, versando in un bicchiere un liquido ambrato contenuto in una bottiglia di vetro. Una volta richiusa con il tappo, Kuniko si spostò nuovamente verso il letto, sedendosi sopra. Sollevò il bicchiere con la mano sinistra, le dita strette attorno al vetro, il mignolo sollevato. Guardò nuovamente Satomi, inclinando la testa e traendo un profondo respiro. In fin dei conti aveva fatto bene a non lasciare la locanda da sola.


    Capitolo 17 - Un dolce tormento

    Elizabeth Blackthorn aveva lasciato la stanza di quel ragazzo come una furia, camminando ad ampie falcate, il vestito bianco e troppo largo per la sua taglia che indossava svolazzava come un lenzuolo al vento, mentre le mani ondeggiavano furiose lungo i fianchi. Non aveva con sé alcuna torcia, ma percorse lo stesso con un'infallibile sicurezza quel tratto di di corridoio anche al buio. Passò davanti a una porta aperta di una delle ragazze, ma fu sufficiente un suo sguardo per spaventarla a morte. Non si interrogò nemmeno sul motivo per cui fosse fuori dalla sua camera a quell'ora, la rabbia e lo sdegno erano palesi sul suo volto ormai consumato dalla furia che provava e che la logorava da diverso tempo.
    Quelle visite ormai sempre più frequenti in quell'angolo di Heaven's Feel la rendevano costantemente nervosa. Ma in fin dei conti quel continuo tormentarsi era addolcito dal pensiero di ciò che stava passando il suo beneamato consorte, il buon Albert. La comparsa di quel ragazzo nella loro città era stato un assoluto colpo di fortuna, un'occasione unica e irripetibile. Soprattutto perché in fin dei conti lei conosceva il suo segreto, anche se non ne aveva fatto parola con nessuno. Il ritrovamento di quelle lettere era stato, tanto quanto l'incontro con il loro ospite, provvidenziale. Doveva solo fare leva ancora un po' su quella sua debolezza e avrebbe avuto successo. Solo un po' – ancora qualche giorno al massimo e avrebbe ristabilito l'ordine naturale delle cose.
    In breve tempo si ritrovò a scendere le scale, stupita del non aver incontrato alcun domestico o alcuna domestica. Che fine avevano fatto tutti? Non si usava più svolgere le faccende e fare i lavori per cui erano pagati? Sempre che Albert effettivamente li pagasse. Il dolore alla schiena, ormai, era solamente un ricordo. Anche piuttosto vago a dire il vero. Ma avrebbe pagato anche per quello. Poche volte aveva visto il tanto temuto e rispettato Signor Blackthorn usare la violenza per stabilire l'ordine, il più delle volte bastava la voce. Ma quel giorno nemmeno lei era riuscita a evitare e smorzare la sua collera inarrestabile. Difficilmente l'aveva vinta con lei, in genere era sempre uno scontro alla pari, anche perché Elizabeth sapeva difendersi divinamente con le parole, rispondendo a ogni attacco da parte di Albert e riuscendo anche, in molti casi, a ferirlo almeno tanto quanto lui feriva lei.
    Il loro matrimonio non era mai stato dei più felici. Anzi non era solo infelice, ma era anche nato senza alcuna possibilità di durare o, peggio, di essere stabile e portatore di gioia. La famiglia di Elizabeth aveva scelto per lei quel marito in seguito alla sua ascesa al potere, poco dopo che lui ebbe finito di costruire l'orfanotrofio di Heaven's Feel. Nessuno sa ancora bene come avesse fatto a trovare i fondi e la manodopera necessaria a erigere quel gigantesco edificio nel pieno centro di quella città. Si sa solo che da allora il prestigio e l'influenza di quell'uomo solo, determinato e religioso oltre ogni limite era aumentata a dismisura. Le famiglie più nobili lo prendevano spesso, anche se poco volentieri, in considerazione quando si trattava di prendere decisioni importanti a livello tanto politico quanto economico. La classica definizione della loro capitale come perfetta antitesi e contrapposizione alla depravazione portata dalla tecnologia imperante nella seconda capitale da loro tanto disprezzata, doveva moltissimo ad Albert Blackthorn.
    Se all'inizio Heaven's Feel sembrava più un rifugio e un orfanotrofio a tutti gli effetti, la sua funzione religiosa e di luogo sacro della morale pubblica divenne sempre più evidente nel corso degli anni. E quando la città della scienza aveva iniziato a espandersi coinvolgendo i paesi e le zone circostanti, molti furono i predicatori che uscivano giornalmente dai cancelli ai piedi della collina per diffondere i sermoni e la voce della dottrina di Albert Blackthorn. E fu così che il suo potere si estese ancora, come un virus che si espandeva a macchia d'olio in ogni singolo luogo vicino alla capitale. Si diceva che queste persone fossero rifugiati all'interno dell'orfanotrofio, anche di giovane età, che si guadagnavano l'ospitalità del Signor Blackthorn diffondendo e sostenendo la sua causa.
    Elizabeth visitò Heaven's Feel per la prima volta all'apice della fama e dello splendore di questo imponente e terrificante edificio. Avrebbe ricordato per sempre il lungo tratto di strada in carrozza dalla sua casa, nel cuore della città, fino alla cima della collina. Il bosco in cui era immerso era tenuto in perfetto ordine, moltissime persone lavoravano alla sua manutenzione. E l'interno, forse, era ancora più inquietante. Albert Blackthorn aveva accolto lei e i suoi genitori nella sua stanza personale: una gigantesca libreria stracolma di libri già all'epoca, diversi anni prima. Proprio allora Heaven's Feel aveva iniziato a ospitare le prime ragazze, motivo per cui i suoi genitori avevano ritenuto necessaria la presenza di una donna in quel luogo. Molte erano le domestiche, ma ovviamente loro intendevano una donna rispettabile e di un certo rango, che potesse affiancare quell'uomo così devoto e potente. Inutile dire che il potere faceva gola a lui tanto quanto ai genitori di lei, e l'idea di legarsi a quel posto in maniera così diretta aveva suscitato indicibili speranze nei cuori di quella famiglia. Senza contare che una delle motivazioni migliori a disposizione del padre di Elizabeth fu la necessità, per un uomo come Albert, di sposarsi e di unirsi in matrimonio con una donna: un uomo come lui non poteva rimanere solo.
    Sposarsi era, forse esclusivamente, il mezzo più rapido e veloce per intessere trame di potere, soprattutto in quella parte di mondo. E quando un membro della famiglia già rispettata riusciva ad intrecciarsi con una persona potente e influente, allora entrambi ne traevano beneficio. A prescindere dalla felicità dei singoli individui. Ma ben presto le vane speranze della famiglia di Elizabeth furono totalmente deluse. Albert Blackthorn non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla propria moralità e tanto meno al proprio prestigio, motivo per cui decise di tagliare fuori la famiglia della sua nuova moglie da Heaven's Feel e da tutte le decisioni politiche che lo riguardavano direttamente. Il motivo? Aveva scoperto che il padre di lei si trovava sull'orlo del fallimento. Una simile situazione avrebbe danneggiato la sua immagine. Ma, da uomo che abbracciava la via della rettitudine quale era lui, non annullò il matrimonio. Bensì irrigidì ancora di più il suo stile di vita, includendo (e obbligando) la moglie a seguire lo stesso regime. La posizione di Elizabeth, d’altronde, non era di certo delle migliori: rinunciare a quel matrimonio avrebbe causato uno scandalo per lei e la sua famiglia, oltre che per Albert, cosa che nessuna delle due parti le avrebbe mai permesso.
    Ormai non vedeva i suoi genitori da parecchio tempo, ma si era abituata. Dopo tutto li aveva ripudiati nel momento in cui l'avevano costretta a sposare quel mostro. Lei aveva ben altri progetti in mente. Senza quel peso di suo marito avrebbe potuto andarsene e lasciare quella città, per dirigersi verso un posto più avanzato e sicuramente migliore. Ma doveva adattarsi alle circostanze, anche se aveva trovato un'ottima scappatoia non solo per eliminare il suo oppressore una volta per tutte, ma anche per portare quel tanto agognato progresso in quella stessa città. Era necessario, però, che giocasse bene le sue carte. E fra queste c'erano il ragazzo e le lettere che aveva recuperato dalla libreria di Albert.
    Giunse in fondo alla rampa di scale che conduceva al dormitorio femminile, arrivando all'enorme pianerottolo sul quale troneggiava la grossa e massiccia porta in legno che conduceva alla loro stanza. A sinistra, i gradini che portavano alla sezione maschile di Heaven's Feel. Spinse la porta, così pesante da sembrare un macigno. Una volta entrata non trovò altro che il più profondo silenzio. Lui non c'era. Non sentiva il solito e costante graffiare della piuma sulla carta o sulla pergamena. Aveva momentaneamente abbandonato gli scritti, cosa che in genere accadeva per due motivi: una delle sue solite lezioni, oppure era uscito per occuparsi di questioni di cui a nessuno era dato sapere nulla.
    D'istinto, Elizabeth portò una mano sul vestito, a livello del fianco destro. Sentì la busta di carta, al tatto. Quel rumore, simile a uno scricchiolio, della carta rigida schiacciata dalla sua mano, le diede conforto e gioia allo stesso tempo. Albert si assentava sempre più spesso. E durante l'ultimo sermone aveva visto l'esitazione. Sì. Era presente, lì, per un solo istante, per un secondo, forse nemmeno. Ma quel discorso contro quel ragazzo l'aveva fatto vacillare. Nessuno l'aveva percepito, ma lei sì. Aveva captato quel piccolo, fragile e breve frammento di debolezza, ed era pronta a trasformarlo nella sua rovina.
    Un istante dopo, mentre lei era immersa in questi suoi pensieri, sentì la porta aprirsi con il suo solito rumore, con la solita pesantezza. Albert Blackthorn era rientrato. I suoi occhi erano in preda a un misto di furia e disperazione.
    “Dove sei stato?” Chiese lei, fingendo indifferenza.
    “Non sono affari tuoi, ora lasciami in pace, ho da fare” Rispose lui, brusco. Si mise alla sua solita scrivania, prese la piuma e iniziò a scrivere rabbiosamente su un foglio.
    Elizabeth sorrise. Sì. Quello era il tormento che voleva vedere prender piede nell'anima di quell'uomo. Si voltò, l'abito bianco ruotò assieme a lei disegnando un cerchio nell'aria e, con passo svelto, si diresse verso la camera da letto, lasciandolo a crogiolarsi nel suo dolore.


    Capitolo 18 - Ricordi e incubi

    Sua moglie si era ritirata nella loro stanza da letto, senza aggiungere alcuna parola. Non era più la stessa da quel giorno in cui aveva imposto il divino ordine con tutti i mezzi a sua disposizione. Aveva portato una creatura... Una creatura, sì! Altro non era, e per di più che viveva nel peccato più totale. Già la vedeva, la sua anima nera e oscura, ormai incapace di essere salvata. Ma quella corruzione non era destinata a lui, singolarmente. Sicuramente si sarebbe diffusa a macchia d'olio, nel dormitorio maschile, in quello femminile e poi nella città e nei paesi vicini. La morale che tanto aveva faticato a creare, in cui aveva investito moltissimo e che aveva contribuito a formare una capitale nuova, dai solidi e incrollabili principi, priva del peccato, era a rischio. Ma sapeva benissimo di chi era la colpa. Era la sua. Era stato lui. E basta, non poteva essere stato nessun altro al di fuori di quell'uomo. Non sapeva quando smettere né quando tirarsi indietro, non aveva idea di cosa potesse significare ciò che aveva fatto. Ma in fin dei conti avrebbe dovuto aspettarselo, il suo unico obiettivo era sempre stato quello di rovinare la sua grandezza, il suo grande progetto. Perché? Perché era invidioso, non poteva essere altrimenti!
    Prese una pergamena. Scrisse una parola. Due. Tre. Dopo un'esitazione di qualche istante la stracciò, rompendola in mille pezzi e gettandola nel camino le cui fiamme scoppiettavano e riscaldavano l'intera stanza. Ricominciò da capo, scrivendo di nuovo alcune frasi, cercando di essere il più convincente possibile e senza lasciare che la rabbia (ma era veramente questa l'emozione predominante che provava? Forse no) gli impedisse di pensare lucidamente. Anche quella pergamena, però, venne gettata nel fuoco che la ridusse in cenere in poco tempo sotto gli occhi di Albert. Scagliò la piuma lontano dalla scrivania e non attese nemmeno il rumore breve e ovattato che emise una volta colpito il suolo per alzarsi dalla sedia, facendola strisciare rumorosamente sul pavimento di legno.
    Iniziò a camminare in circolo nella stanza, le mani dietro la schiena, il capo chino a fissare i piedi che si muovevano furiosamente. Cosa doveva fare? Scrivere una lettera? Andare di persona? Cosa? Era riconoscibile, chiunque avrebbe potuto vederlo mentre si dirigeva verso quel posto tanto familiare e conosciuto. Non poteva contare nemmeno su sua moglie, avrebbe sicuramente fatto qualcosa di sbagliato. Si fermò, sfiorando con la mano sinistra l'altra, quella che aveva usato per colpire Elizabeth. La strinse forte perché stava tremando. “Cosa mi è preso?” Disse, rivolto a quello che credeva essere il suo unico signore e la sua unica guida. Lui e quella donna non erano mai andati d'accordo, non l'aveva mai accettata, non dopo l'inganno della famiglia di lei. E peggio ancora, non l'amava. Ne mai l'aveva voluta. Dunque perché? Perché aveva deciso di sposarla? Perché si trovava in quel posto? Chi era?
    Uscì dalla stanza, afferrando il cappotto. La massiccia porta di legno si richiuse pesantemente dietro di lui. Con passi pesanti e decisi scese la scalinata che conduceva all'ingresso. Dopo qualche istante, il portone d'entrata, con il suo solito scricchiolio inquietante che risuonava in tutto l'edificio di Heaven's Feel, si aprì e si richiuse. Andato. Dalla camera da letto uscì Elizabeth Blackthorn. Si mosse lentamente, sorridendo. Si fermò davanti al fuoco, osservando ciò che restava dei fogli di pergamena bruciati. Dalla finestra, il corvo fissava quella scena con i suoi occhi scuri.

    A chilometri di distanza, quella stessa sera, Kuniko aiutava Satomi a riprendersi da quell'inaspettata sorpresa. Non era mai stata una ragazza di tante parole, ma quella volta pareva quasi eccessivo. La fece sedere sul letto, mentre lei finiva di rivestirsi. Notò che la ragazza continuava a guardare da un'altra parte. “Vedo che qualcuno qui si vergogna di vedere un corpo nudo” disse all'improvviso Kuniko, ormai al limite della sopportazione di quella timidezza che riteneva eccessiva. “Non ti accadrà nulla anche se vedi una donna o un uomo senza vestiti, sai?” Continuò, notando lo sguardo spaventato di Satomi. Quest'ultima attese ancora qualche secondo prima di parlare, voltando lo sguardo verso la sua compagna di viaggio. Imbarazzata, chiese: “Ma... ma come hai fatto?”.
    Kuniko voltò gli occhi verso il cielo, seccata. Finì di vestirsi, ormai non aveva più sonno dopo quell'interruzione. Si sedette accanto alla ragazza, pronta a spiegare finalmente quello che per l'altra sembrava un interrogativo enorme. “Vedi, in anni di studio ho elaborato un nuovo programma. Questo è stato l'obiettivo della mia ricerca fin dal principio, anche se si tratta di qualcosa ancora in stadio sperimentale. Studiando il mio corpo e soprattutto la sua costituzione, sono riuscita a creare questa texture. Non perderò tempo con il dirti da dove ho derivato questo nome” aggiunse, notando la faccia perplessa che Satomi aveva sfoggiato quando aveva pronunciato quel termine. Perché nessuno capiva quello che diceva? Erano sempre sbalorditi, sempre stupiti, sembrava sempre tutto una nuova e incomprensibile scoperta, eppure la maggior parte di quei dispositivi e di quella stessa tecnologia la utilizzavano loro stessi. Satomi stessa usufruiva di un programma che stabilizzava la sua empatia e non aveva la minima idea di come dovesse utilizzarlo o di come era stato progettato. Kuniko iniziava a pensare che non fosse semplice ignoranza, come aveva creduto fino a quel momento. “Forse dovremmo iniziare a spiegarvi meglio come usare tutte le straordinarie invenzioni che vi proponiamo” continuò, come se fosse sovrappensiero. Lo scarto di conoscenza fra chi inventava e chi utilizzava stava crescendo, e quello sarebbe presto diventato un problema. Probabilmente l'errore più grande della capitale che tanto aveva sognato di creare era proprio questo suo essere cresciuta tanto in fretta. Forse avevano perso la maggior parte delle persone durante la strada.
    “E cosa fa questo tuo nuovo programma?” Fu la domanda di Satomi.
    Per la prima volta parlava da quando aveva scoperto il suo “segreto”: “beh, fa quello che hai visto poco fa! La texture è qualcosa di legato alla mia pelle e al mio stesso organismo, un po' come il dispositivo multimediale che ho installato dentro il tuo cervello per rimettere in ordine la tua empatia e crea il network che ti collega con il resto del mondo” fu la risposta di Kuniko, che proseguì notando un'aria di maggior chiarezza sul volto della sua interlocutrice. “Ogni volta che lo attivo, modifica il mio corpo e mi permette di... Beh, hai visto poco fa, mi permette di diventare un uomo” aggiunse poi, facendo un'altra pausa prima di proseguire. Voleva sondare la reazione di Satomi a ciò che le stava dicendo.
    “Ma... Ma ti fa male quando diventi.... Quando, hai capito no?”
    Kuniko non poté fare a meno di ridere sonoramente a quella domanda e all’ingenuità di Satomi: “di tutto ciò che ti ho appena detto, l'unica cosa che ti interessa è se mi fa male quando cambio corpo e una certa zona si modifica?”.
    “Beh, è l'unica curiosità che mi viene in mente, anche se non ho capito bene come funziona! Non ho mai visto niente del genere prima d'ora!” Proseguì la ragazza, che sembrava aver ritrovato il buonumore.
    “Sei proprio una persona incomprensibile, sai?” Sorrise Kuniko.
    “Non è vero! È che è tutto una novità per me! Ho vissuto rinchiusa per molti anni, non puoi prendertela con me per questo!” Rispose lei, permalosa.
    “Si, forse hai ragione” ribatté la giovane scienziata, per poi aggiungere: “ma in realtà non ne hai mai visto nessun altro perché nella nostra capitale è vietato utilizzare questo programma. Quando ho proposto il suo utilizzo lo hanno bocciato, oltre ad aver sospeso il progetto di ricerca che io stessa conducevo”. A quel punto Satomi non poté non notare la profonda rabbia e l'implacabile malinconia, non solo perché erano chiare sul viso di Kuniko, ma perché le sentiva chiaramente. Non fu necessario che lei aggiungesse nulla, perché l'altra proseguì di sua spontanea volontà, senza alcuna richiesta da parte di Satomi di continuare: “vedi, per tutta la mia vita ho amato solo la tecnologia. La scienza è sempre stata tutto per me, ma per quanto io mi impegnassi rimanevo sempre esclusa dal centro di ricerca principale, quello a cui ambivo, quello dove volevo arrivare. E questo perché loro mi vedevano come una donna. Il mio corpo, il mio aspetto, per loro annullavano tutto ciò che la mia mente poteva produrre.” Si alzò dal letto, spostandosi verso la finestra. Pensava a tutta quella tecnologia... Tanto progresso, ma le menti e i pensieri delle persone che ne avevano fatto di quel balzo in avanti? “Ma questo loro odio per ciò che io ero aveva sollevato un'altra questione, una lotta che io combattevo con me stessa fin da quando era piccola... Questo corpo non era e non è il mio, non lo volevo allora e non lo voglio adesso, ed è la mia mente a dirlo, quella che tutti quegli scienziati hanno sempre ignorato... Non è solo il mio corpo, il mio fisico, il mio aspetto... La parte più interiore, più intima e privata del mio essere desiderava e desidera tutt'ora essere altro, ma senza rinnegare una parte di me che per tanto tempo mi ha accompagnata”. Satomi non riuscì a trattenere le lacrime. La forza, l'intensità di quelle emozioni erano troppo perché lei riuscisse a trattenersi. Si abbatterono su di lei come un gigantesco tsunami, un'onda travolgente che spazza via tutto ciò che trova sul suo cammino.
    Qualche istante di silenzio. Nessuna delle due parlò, non era necessario. Satomi si alzò, muovendosi verso Kuniko, trascinata da quelle emozioni tanto forti. In lei, però, iniziò a sentire anche qualcos’altro provenire da quell’esplosione di sentimenti, qualcosa che si mescolava perfettamente con ciò che proveniva dal suo stesso corpo. “E ora, quella mente che nessuno ha mai visto ce l'ha fatta, ha creato qualcosa che doveva a se stessa, non a loro, e non mi sono mai sentita meglio di così! Certo ha ancora dei...” Ma non riuscì a finire la frase. Satomi prese la sua mano e la fece voltare. Si fissarono per qualche istante, prima di abbandonarsi a un lungo bacio. Kuniko chiuse gli occhi, ormai le parole non servivano più, sarebbero state superflue. Il corpo di lui reagì, la texture fece il resto e in pochi istanti Satomi si ritrovò stretta nell'abbraccio di quelle braccia forti dal tocco femminile, che la facevano sentire protetta, forse per la prima volta nella sua vita. L'attrazione e il desiderio che provava offuscavano, inaspettatamente, tutte le emozioni altrui. Forse fino a quel momento non aveva sentito altri sentimenti se non quelli degli estranei, non si era mai fermata ad ascoltare se stessa, a scoprire se stessa, a scoprire cosa vuol dire amare qualcun altro. A scoprire cosa volesse dire desiderare qualcuno. Aveva sempre avuto paura, in quanto la sua maledizione, l'empatia, aveva funzionato da bolla. Quell'involucro, però, era scoppiato. Così come era esploso quello di Kuniko, che era riuscita a diventare se stessa. Le loro identità di fusero in quella notte di passione, consumata per la prima volta per entrambi. In fin dei conti tutto quel progresso non era stato sprecato. I loro corpi erano cambiati, si erano trasformati in qualcosa di eccezionalmente autentico e si erano fusi in quei lunghissimi attimi.
    A bruciare, però, non era solo la fiamma di Satomi. Quel fuoco che aveva percepito prima di raggiungere il suo compagno di viaggio ora era offuscata dalla stessa passione. Ma quella scintilla in mezzo a tante piccole stelle lontane, immobili, immerse nel sonno, era tutt'altro che sparita. Albert Blackthorn era giunto davanti alla locanda della capitale, quella più famosa, gestita da un uomo che ben conosceva – che tutti conoscevano. In piedi, di fronte a quella porta che credeva fosse stata chiusa per sempre, tremava in attesa di affrontare il suo più grande incubo.


    Capitolo 19 - Fantasmi del passato

    Nella stanza nascosta alla fine del corridoio buio in un'ala del dormitorio femminile, il Lupo attendeva la risposta con la testa appoggiata sul palmo della mano. Le gambe accavallate e il gomito che sosteneva il peso del capo sul ginocchio – il suo sguardo annoiato continuava a muoversi da Celestine al ragazzo e viceversa. In quei lunghi attimi di silenzio, Vladimir ebbe il tempo di riprendersi dall'incontro con la donna di poco prima. Asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, si staccò dall'abbraccio di Celestine, il cui sguardo preoccupato ora era fisso su quella strana creatura seduta in quella stanza.
    La donna decise di alzarsi, lasciando il ragazzo sul letto. Si avvicinò rapidamente alla porta, senza fare alcun rumore, chiudendola. Il Lupo non era affatto meravigliata che poco prima non si fosse nemmeno accorto della sua presenza. Come poteva essere tanto silenziosa? E il suo udito era praticamente perfetto, sicuramente migliore di quello di un semplice essere umano. “Sto ancora aspettando, quando siete comodi gradirei una risposta alla mia domanda... E vi avverto che sto perdendo la pazienza, è molto maleducato da parte vostra far attendere così un ospite, nessuno vi ha insegnato le buone maniere?” Chiese ancora, impaziente.
    “Certo che non sei cambiato di una virgola, sei sempre stato agitato e sempre lo sarai caro Lupo!” Rispose finalmente la donna, con un tono piuttosto seccato. Quel tono di familiarità stranì parecchio la creatura, che la fissò inclinando la testa da un lato. Sotto sotto sentiva che quella voce non gli era nuova, ma l'aveva già sentita da qualche parte. Ma quando? E in quale occasione? E soprattutto... Dove? “Come fai a conoscermi? Non ricordo di averti vista da nessuna parte, soprattutto da quando sono passata da questa parte e quella ragazzina mi ha tirata fuori da quel libro, o qualunque cosa fosse quella da cui sono uscita assieme a lei” rispose il Lupo, con un gesto annoiato della mano.
    Celestine rivolse un ultimo sguardo al ragazzo sul letto, che non aveva idea di cosa stessero parlando. Quando incrociò gli occhi di lei, sollevò le spalle mostrando la sua totale estraneità all'argomento di quella conversazione. La donna trasse un profondo respiro, come se fosse pronta a liberarsi di un enorme peso che trascinava con sé da moltissimo tempo.
    “Credo proprio che tu mi conosca, Lupo”
    “E questo, mia cara signora, l'avevo già capito da un pezzo... Gradirei sapere qualcosa di cui ancora non sono a conoscenza” rispose arrogante la creatura.
    “Questi tuoi modi di fare li conosco fin troppo bene, con me non funzionano per niente!”
    “D'accordo, allora ti lascerò parlare” concluse il Lupo sollevando lo sguardo verso l'alto, in segno di evidente rassegnazione.
    “Molto bene! Mettiti comodo ragazzo, ho parecchie cose da raccontare” disse Celestine, rivolta a Vladimir che si era messo comodo, non avendo altra alternativa se non ascoltare. All'improvviso, però, alla donna venne in mente la lettera che aveva scritto Lucy. “Nel frattempo credo tu abbia qualcosa da leggere, la persona a cui ho portato la tua lettera ha risposto, tieni” disse allungando verso di lui il foglio ripiegato. Il giovane, felice, la prese fra le mani, dicendo: “grazie mille Celestine, sapevo che potevo fidarmi di te! Prendetevi pure il vostro tempo, io voglio rispondere a questa lettera!”. E così facendo si immerse nella lettura, ma senza distogliere del tutto l'attenzione da ciò che gli altri due stavano dicendo.
    “Pensi che il libro da cui Lucy ti ha tirato fuori sia giunto nella sua stanza per caso? Gliel'ho recapitato io personalmente” iniziò Celestine, notando che l'interesse del Lupo non accennava a scemare. “Ma non posso dire, per quanto mi piacerebbe, che sia stata sempre io ad averlo trovato, né tanto meno a scriverlo. L’ho ricevuto in dono da qualcuno, che tu conosci molto, molto bene.
    “Era una giornata d'inverno di qualche anno fa, svariati mesi – anzi anni dopo l'arrivo della piccola Lucy in questo posto maledetto. Un uomo, che da allora è diventato il mio migliore amico e confidente in questa città, mi fermò sulla strada per tornare a Heaven's Feel per parlarmi di una certa questione. È strano come lui debba sempre dirmi cose estremamente importanti” disse sorridendo. Lanciò un ulteriore sguardo al Lupo, che l'ascoltava in silenzio. Era così testarda e incuriosita che non avrebbe più spiccicato parola. Fare l'offesa era ciò che gli riusciva meglio. Anche se non poteva nascondere l’interesse nel sentire che colui che aveva ceduto il libro a Lucy era una sua conoscenza.
    “Come tu ben sai noi proveniamo da quel libro, o meglio, quel libro è uno dei tanti ingressi al nostro mondo, al luogo da cui proveniamo tutti noi, tu inclusa. Ma che cos'è quel libro? Che cos'è quel mondo da cui noi arriviamo? Da cui entrambi siamo usciti? Qui lo chiamano mondo delle fiabe, noi in genere lo chiamiamo casa. Bene o male ci siamo incontrati, svariate volte lungo la strada per i diversi luoghi in cui le nostre storie si svolgevano. Prima che gli umani decidessero di narrare le nostre storie, non vivevamo ognuno nel proprio posto, in un luogo fisso, isolato dagli altri e dalle altre, ma ci siamo sempre mossi e spostati varie volte. Abbiamo cambiato casa, ne abbiamo trovate di nuove e abbiamo incontrato tante persone tante volte. Non esiste una nostra storia, esistono le nostre storie!
    “Vedi, senza gli umani a raccontare le nostre avventure, nessuno ci conoscerebbe, ma è altrettanto vero che le nostre storie sarebbero state molto diverse, forse anche più libere. O saranno molto diverse, chi lo sa. Siamo cambiati tanto nel corso del tempo, tante volte hanno narrato e rinarrato, cambiato, modificato e letto le nostre vite, tanto che ognuno di noi ha preso una strada differente. Io, per esempio, un tempo avevo una matrigna e due sorellastre, ma ho avuto anche un principe azzurro. Ma non mi piaceva fare le pulizie, essere una domestica schiava di quelle tre malvagie signore! Ma la mia storia è stata quella per tanti anni, succube delle mie sorellastre vivevo quelle pulizie ancora e ancora. Ed è stato proprio in quel momento, proprio allora, che la mia mobilità è stata bloccata – niente più spostamenti, tutti noi, nel tempo, abbiamo assunto un luogo fisso. Chi attingeva alle nostre storie le fissava allo stesso tempo, sempre un po’ differenti, ma pur sempre immobili.
    “Per ironia della sorte, anche in questo modo mi è toccato un destino simile al precendente. Ma a volte ciò che detestiamo di più è proprio ciò che può esserci più utile, almeno per raggiungere i nostri scopi. Certo, mi sarebbe piaciuto molto essere come te, libera nei boschi e indipendente” ma qui il Lupo la interruppe, lamentandosi: “Hey, non esagerare, ti ricordo che quello a cui aprivano la pancia, veniva riempito di pietre o se la vedeva con il cacciatore a seconda della versione, ero io, non certo tu!”.
    “Ma allora ti ricordi!”
    “Certo che mi ricordo, non sono mica stupida!” disse, cambiando posizione. “Volevo capire fino a che punto io potessi fidarmi di te, ma va avanti. Non sono a conoscenza di tutti questi particolari, credevo che nessuno di noi potesse lasciare il proprio ruolo.”
    “Anche io, pensavo di essere destinata per sempre a sposare il principe. Invece qualcosa è cambiato, non tutto è andato secondo i piani – cioè la storia. Qualcuno è stato in grado di tirarci fuori, portando in questo mondo più di uno di noi. Ed è stato proprio quel qualcuno a farmi aprire gli occhi e a spiegarmi il nostro ruolo qui, e di come sia cambiato nel tempo”
    “Aspetta, io sono stata portata qui da Lucy... Ma non mi pare che il tuo aspetto sia molto diverso da quello che avevi in passato, per quanto io fatichi a ricordarlo esattamente... Non ti è stata concessa l'occasione di diventare decisamente più bella come me?” Commentò il Lupo sprezzante.
    Ignorando quell'ultima battuta, Celestine proseguì nel suo racconto: “perché è stata Lucy a portarti in questo mondo, partecipando alla storia, lei ti ha raccontato ed è cresciuta partecipando alla storia con te... Da quanto ho potuto vedere osservandovi, tu sei la sua parte interiore, quella ribella, esuberante, che non riesce a trattenersi... Non so come funzioni esattamente il potere di Lucy: so che può entrare e uscire dalle nostre storie, ma anche legarsi a parti di esse che diventano un tutt’uno con la sua identità”
    “Dunque io sarei la sua parte migliore?” Interruppe il Lupo.
    “Anche quella vanitosa, che lei non ha mai osato essere, che nessuno le ha mai permesso di essere! Noi esistiamo in base a come ci raccontano, e ti assicuro che siamo stati usati in mille modi, molti anche per far passare messaggi e insegnare a chi leggeva di noi tante cose, anche se non sempre corrette” aggiunse Celestine.
    “Per quale motivo hai usato un soprannome?” chiese la creatura, sempre più curiosa.
    “Perché colui che mi ha tirato fuori sapeva che non avrei potuto usare il mio vero nome, mi avrebbero subito riconosciuta e si sarebbe cacciato in un mare di guai, la sua posizione non lo permette, o forse sarebbe più giusto dire che il suo ego non lo permette, così come l’odio profondo verso quel suo passato... Comunque, visto che hai capito chi sono addio alla mia maschera, sono contenta che tu mi abbia riconosciuta: sono Cenerentola!” Disse lei, abbandonando definitivamente il soprannome di Celestine. I dubbi del Lupo furono, così, chiariti ed ebbe la conferma di chi fosse la donna con cui stava parlando. Tutte le domande che si era posto erano corrette: ognuno di loro proveniva da un altro mondo, o da altri mondi.
    Si alzò dal mobile, per avvicinarsi di più a Cenerentola. “Da quel che ho capito non siamo gli unici a essere stati convocati in questo mondo, vero? Chi altri ci ha seguiti? Anche se uno già lo conosco, temo” chiese insistente. La donna trasse un profondo respiro, ormai non poteva più mantenere quei segreti – tanto valeva che fossero rivelati. “Il cacciatore è qui con noi, non a Heaven's Feel ma nelle vicinanze, oltre a...”
    “Lo sapevo! E cosa fa in questo mondo? Uccide ancora i lupi senza mostrare un minimo di cuore e di pietà?!” Sbraitò il Lupo, mostrando tutta la poca simpatia che provava per quell'uomo.
    “Gestisce una locanda, vicino all'orfanotrofio. È piuttosto famoso, sai? Tutti lo amano e...” qui il suo sguardo si fece più cupo.
    “Ma pensa! Non hanno idea di chi sia stato prima!! E cosa? Che ha fatto ancora?” Insistette l'altra, con le mani sui fianchi, nella classica posa che assumeva quando era arrabbiata o voleva mostrare un suo trionfo.
    “Beh, è proprio lui ad avermi dato il libro... E mi ha anche... Ecco, mi ha confessato un altro segreto a dire il vero, qualcosa che mi ha suscitato parecchi dubbi... A quanto pare Lucy proviene direttamente dal libro delle fiabe, è stata portata in questo mondo come noi! Prima di noi ovviamente, ma da quel che so chi l’ha portata qui, da questa parte, è stato assistito dallo stesso Cacciatore” concluse Cenerentola, dicendo l'ultima frase tutta d'un fiato.
    Stranito, il Lupo rivolse un nuovo sguardo interrogativo. E Vladimir, che aveva ascoltato tutta la conversazione, fu sorpreso di scoprire che quella ragazza che aveva scritto la lettera per lui proveniva in realtà da... Un libro! Prima che potesse fare una domanda, però, il Lupo prese in mano le redini della discussione: “mi stai dicendo che lei proviene dalle nostre stesse storie? Il che spiegherebbe la sua capacità di ritornarci... Ecco perché quei capelli di quel rosa acceso non mi erano affatto nuovi!” sentenziò con sguardo illuminato, prima di porre un'ultima importante domanda: “Ma se lei apparteneva al nostro mondo, così come il Cacciatore, e ciò significa (come hai detto tu) che nessuno dei due ha tirato fuori dal libro te, il cacciatore stesso e Lucy, ma che è stato qualcun altro a farlo... Chi può essere stato?”. Attese la risposta temendo, purtroppo, di conoscerla già.
    “È stato colui che ha costruito e detiene questo posto: Albert Blackthorn. Lui ha portato i primi di noi in questo mondo – lui ha dipinto il Cacciatore, rompendo la barriera fra il nostro spazio ed il suo, portandolo qui”. Fuori aveva iniziato a piovere incessantemente, come se fosse esplosa una tempesta all'improvviso.
    “Dipinto?” Chiese il Lupo, ormai in preda al desiderio di giungere fino in fondo a quella storia.
    “Sì.... O non penserai forse che Lucy sia l’unica in grado di entrare nelle storie e legarsi a noi? Albert lo fa con un’arte diversa, ma è in grado di dare vita a ciò che dipinge e tramutarlo in realtà: noi siamo ciò che lui ha pensato di noi, un altro esempio di come le nostre storie siano soggette a questo mondo” concluse Cenerentola. Si voltò verso Vladimir, confuso ma allo stesso tempo intimorito nel sentire il nome di colui che lo aveva rinchiuso in quella stanza. La donna lo accarezzò dolcemente sul viso, sorridendo per tranquillizzarlo. Il Lupo, intanto, si voltò a osservare la pioggia, riflettendo su quanto aveva appena scoperto.


    Capitolo 20 - Resa dei conti

    Quando Albert Blackthorn giunse di fronte alla porta della locanda, la città si trovava nel bel mezzo di un diluvio da qualche ora. Le strade erano deserte, in breve tempo tutte le persone si erano rifugiate nelle proprie dimore per evitare di essere colpiti da quella cascata d'acqua, che iniziava ormai a scorrere per le strade quasi volesse allagare tutto quanto. Di lì a poco anche il vento si sarebbe unito alla pioggia. Quando anche l'ultima porta della capitale fu chiusa, così come le finestre, nessuno era rimasto per le strade. La figura vestita di nero che aveva lasciato il parco di Heaven's Feel a piedi, senza alcuna carrozza o mezzo di trasporto, ma soprattutto totalmente solo –camminava risoluto sfidando le intemperie.
    Il suo cappotto era completamente bagnato, tanto che ormai si erano bagnati anche i suoi vestiti, i capelli e ogni sua singola parte del corpo. Era come se non avvertisse nemmeno più la pioggia. Continuava ad avanzare nel mezzo di quelle strade allagate, incurante delle poche facce incuriosite affacciate alle finestre, stupite nel vedere qualcuno ancora fuori casa con quel tempaccio. Ma quando ognuno di loro indicava agli altri abitanti la figura che camminava, questa era già sparita, inghiottita dalla pioggia, dal vento e dalla nebbia che iniziava a sollevarsi.
    Svoltò a destra. Pareva quasi che il tempo ce la stesse mettendo tutta per impedirgli di raggiungere la sua destinazione. Raffiche sempre più forti rendevano quasi impossibile camminare, mentre l'acqua che dal cielo si riversava sulla terra senza alcuna sosta offuscava e non permetteva di vedere con chiarezza a un palmo dal proprio naso. Ma nemmeno la grande forza messa in campo dalla natura sembrava in grado di fermare quell'uomo. Tanto che, a un certo punto, iniziò a lasciar andare la presa. Il diluvio si era placato, accettando la volontà di quell'uomo di andare avanti. O forse, come egli pensava segretamente dentro di sé durante quel viaggio, era una prova. Che lui, ovviamente, aveva superato. Albert Blackthorn superava sempre le prove che il mondo gli metteva di fronte, per sbarrargli la strada.
    Il vento era cessato e la pioggia ora, meno violenta, permetteva di vedere meglio la strada da seguire. Non che lui ne avesse bisogno: conosceva quel percorso a memoria, avrebbe potuto farlo a occhi chiusi. Fu così che svoltò ancora un paio di volte, contento di non aver smarrito la via nonostante la tempesta, segno di quanto gli fosse familiare quella direzione. Ed eccola lì. Di fronte a lui, la locanda che aveva tentato di raggiungere disperatamente, per la quale aveva sfidato la prova impostagli dalla natura e, addirittura, vincendola. Percorse gli ultimi metri che lo separavano da quella porta di legno sulla quale le gocce d'acqua si abbattevano, per poi scorrere lungo le incrinature e gli intagli. Dentro, in quel luogo, l'acqua e il vento non potevano entrare. Ma cosa avrebbe trovato? O meglio, chi? Questa domanda lo attanagliava da quando aveva lasciato Heaven's Feel.
    Aprì la porta, aperta dato l'orario di lavoro. Eppure quel giorno non c'era la solita folla scalpitante, che occupava tutti i tavoli da gioco, che si scaldava in quelli accanto al camino o che si accalcava di fronte al bancone fra risate e ordinazioni. Regnava il più grande e profondo silenzio. Albert abbassò il cappuccio del suo cappotto, ormai fradicio fino al midollo, e si avventurò in quel grosso salone. Dall'ultima volta che si era recato in quel posto molte cose erano cambiate. Al centro si trovava un enorme tappeto, che occupava la maggior parte della superficie del pavimento. L'ordine dei tavoli era cambiato, non era lo stesso di un tempo e probabilmente se n'erano aggiunti parecchi. Col tempo quella locanda era diventato il luogo più frequentato della capitale. Famoso tanto quanto Heaven's Feel, ma senza alcuna traccia della magnificenza e della grandezza dell'orfanotrofio. Più piccolo, insignificante. Ma pari per la fama e decisamente più ben visto della gigantesca struttura sulla collina. Lì le persone avevano trovato una nuova grande famiglia. Lui poteva forse dire di aver dato lo stesso ai suoi ragazzi e alle sue ragazze? Albert scrollò le spalle come a voler far scivolare via quei pensieri.
    Avanzò ancora, avvicinandosi al camino acceso. Per terra lasciò una lunga striscia d'acqua, come a segnare il percorso e la strada che aveva percorso. Quel silenzio era interrotto solo dal crepitare del fuoco e dal rumore della pioggia sui vetri delle finestre. Una, in particolare, era rivolta verso la sua collina. Lo sapeva benissimo, conosceva molto bene quel particolare punto della locanda. Ora il maltempo non lo permetteva, ma con il sole e la dovuta concentrazione, chiunque avrebbe potuto notare una finestra rivolta nella stessa direzione che apparteneva, però, all'orfanotrofio. Dopo aver raggiunto il fuoco, rimase fermo lì davanti, cercando di scaldarsi. Tempo qualche istante e avvertì alcuni passi giungere dalla stanza dietro il bancone. Attese, già consapevole della persona che lo avrebbe raggiunto di lì a pochi secondi.
    “Cosa ci fai tu qui?” Chiese una voce stupita, ma familiare. Albert si voltò, un po' impacciato nei movimenti dato che i vestiti gli si erano quasi del tutto incollati addosso zuppi d'acqua com'erano. Esitò qualche istante prima di parlare. Vederlo dopo tanto tempo gli faceva ancora effetto, anche se lo odiava, anche se dentro di sé era convinto di aver dimenticato tutto quanto. “Ci sei tu dietro tutto quanto, vero? Sei stato tu a farlo trovare a Celestine, sei stato tu a chiederle di portarlo a Heaven's Feel, perché volevi arrivare a me in qualche modo, non so per cosa, non so per quale motivo, ma volevi ferirmi” tutta la rabbia conservata per anni stava esplodendo improvvisamente. Di nuovo. Come ogni volta che i due si incontravano faccia a faccia. “Proprio come hai fatto con lei...” aggiunse, indicando l’orfanotrofio che si intravedeva dalla finestra. Il proprietario della locanda, sconvolto più dalla vista di quell'uomo nel suo locale che dalle parole da lui pronunciate, gettò una rapida occhiata nella stessa direzione. “Che cosa stupida costruire questa finestra, volevi tenermi d'occhio?” alzò la voce l'altro, sprezzante.
    “Non è forse lo stesso motivo per cui tu ne hai costruita una che guarda su questa locanda?” Fu la risposta, che lasciò Albert quasi senza parole. Abbassò gli occhi, senza aggiungere altro, si limitò semplicemente a rivolgere lo sguardo verso lo stesso punto in cui anche l’altra stava guardando. “Ti sei pentito di avermi portato in questo mondo?” proseguì il proprietario della locanda, girando attorno al bancone per avvicinarsi di più. Albert si voltò verso di lui, osservandolo. I suoi modi non erano cambiati di una virgola, il passo, le braccia robuste, le solite camice che lui tanto detestava. Solo la barba era più lunga e incolta di com'era anni addietro. “Sì, mi sono maledetto più e più volte di avervi portati qui. Di averti portato qui, perché la colpa è tutta tua, di nessun altro. Quella Cenerentola almeno sa fare il suo dovere, a parte per l'essere caduta due volte nei tuoi stupidi tranelli... E quella Elizabeth sta sfruttando questa cosa, lo so. Gode nel vedermi soffrire”. Albert fece un passo indietro notando l'avvicinarsi costante dell'altro. Ma continuò a parlare: “senza di te nulla di tutto questo sarebbe accaduto, niente di niente. E io che pensavo fossi solo un semplice Cacciatore, alle prese con uno stramaledetto Lupo!”.
    “Perché ti sei tanto interessato alla mia storia, allora? Perché disegnare proprio me, conoscendo l’effetto che avrebbe avuto quel dipinto?”
    “Non sono entrato in possesso quel libro apposta, sai benissimo che non era mia intenzione, ero... Ero solo e...”
    “Ma lo hai fatto, e hai trovato me, nessun altro. Sono stato il tuo primo incontro”
    “Sei stato la mia maledizione, altro che primo incontro! Senza di te quello non sarebbe mai accaduto!” Urlò puntando il dito contro la collina dove sorgeva Heaven's Feel.
    Il cacciatore si fermò. Osservando lui stesso in quella direzione, restando in silenzio per qualche istante. “Perché tutto questo odio? Perché? Lei sta bene...?”
    “Sì! Sì! Sta benissimo, la tua ragazzina dai capelli rosa sta bene, mi sono assicurato che nessuno le facesse del male, anche se non ha imparato nulla di quello che ho provato a insegnarle! È questa la tua preoccupazione più grande, vero? Dovresti almeno scusarti per aver fatto entrare quel mostro nella mia dimora!” alzò nuovamente la voce Albert.
    “Mostro? È un ragazzino che aveva, e che ha, bisogno d'aiuto! E tu cosa fai? Lo rinchiudi in una stanza! Chi pensi che sia il mostro fra i due?” Domandò furioso il Cacciatore, senza accorgersene aveva alzato i toni anche lui. L'altro fu stupito da quella presa di posizione e abbassò gli occhi, come se sentisse l'improvviso desiderio di guardarsi i piedi. A questo punto erano piuttosto vicini, li separavano solo un paio di metri. Fu Albert il primo a parlare fra i due: “ricordo ancora quel giorno come se fosse ieri...”. La sua voce era come spezzata, anche se solo per quell’istante. Il carico di malinconia era quasi insopportabile. Ma ogni traccia di emozione sparì poco dopo.
    “Lo so, lo ricordo anche io, perché è proprio da quel giorno che ti ho perso e soprattutto tu hai perso te stesso... Non pensavo che tu potessi cambiare così tanto, né che potessi arrivare a fare... A fare certe cose... Quanto ancora potrai cadere in basso?”. Le parole dell'uomo colpirono Albert come fossero frecce. Non riuscì a replicare, semplicemente continuò a fissarlo, sbalordito. “Hai rinnegato te stesso, hai allontanato me, hai costruito quella specie di prigione gigantesca su quella collina in cui hai rinchiuso e torturato psicologicamente tutti quei ragazzi e quelle ragazze! E in cui hai rinchiuso tu stesso! E io.... E io che da stupido ti ho anche amato” una lacrima scese lungo la guancia del proprietario della locanda, per poi perdersi nella folta barba. “E soprattutto credevo amassi Lucy, mia figlia... TUA figlia! NOSTRA figlia! Ma non ne sei stato in grado, non avevo riconosciuto il mostro che c'è in te... E mi darò sempre la colpa per questo, puoi starne certo!” concluse, pronunciando le ultime frasi tutte d'un fiato.
    Albert, stupito, rimase in silenzio. “Jacob... Io... Sai come sono cambiato da quel giorno... Io non sapevo come... Come reagire, cosa fare...”. Ma l'altro non gli diede il tempo di finire, passando subito al contrattacco: “hai subito le stesse cose che ha subito quel ragazzo, perché tu provenivi esattamente dalla stessa città da cui proviene lui, hai vissuto la stessa violenza che ha vissuto lui, l'unica differenza è che tu avevi me, avevi Lucy, ma hai preferito rispondere alla violenza con altrettanta e, forse, superiore cattiveria...” proseguì Jacob, ormai determinato a chiudere quella storia una volta per tutte. “Quante volte hai fatto visita a Lucy in quel tuo maledetto orfanotrofio? Quante? Quante volte sei tornato qui da me, sapendo la situazione in cui mi trovavo? Pensi che io non sia stato vittima dello stesso odio che ha colpito te? Ho mandato Lucy ad Heaven's Feel perché fosse al sicuro, visto che io non potevo permettere che le accadesse qualcosa, non me lo sarei mai perdonato.
    “E tu che hai fatto? L'hai rinchiusa in una stanza come hai fatto con tutti gli altri, insegnando a lei e a loro i tuoi stupidi precetti rinnegando ciò che sei veramente! Non importa quanto soffriamo, la violenza non puoi mai diventare una soluzione!” urlò a questo punto Jacob. In preda al panico, sconvolto per tutte quelle piccole verità che lo colpivano come fossero proiettili, senza sosta, Albert non sapeva più cosa rispondere. Né come reagire. Ma la sua indecisione durò solo pochi attimi, la via che aveva scelto, ormai, gli negava qualunque possibilità di ragionamento. “Io sono diventato l'uomo più importante di questa città, senza di me questa capitale non sarebbe nulla! È la mia morale ad aver risollevato le sorti di questo posto ormai perduto da tempo! E sarò io a crescere la nuova generazione, per impedire che abomini come te corrompano il mondo ancora una volta!” esclamò, con fare intenso, proprio come se quello fosse uno dei suoi soliti discorsi, dall'alto del pulpito nella sala comune di Heaven's Feel. “Forse, volevi dire abomini come noi” fu la risposta di Jacob, che colpì dritto nel segno. Non sapeva se ridere, arrabbiarsi o provare semplicemente pietà per l’odio di quell’uomo. Forse, proavva tutte e tre quelle emozioni allo stesso tempo.
    “È troppo facile nascondere la verità con questi stupidi sotterfugi, Albert... Tu mi hai amato, sei come me, sei come quel ragazzo che tieni nascosto in quella stanza buia, perché è quella stessa parte di te che tieni nascosta nel buio del tuo cuore, solo perché hai accettato che qualcuno ti dicesse che sei sbagliato, che sei un abominio... Urla, grida, predica quanto vuoi, il mondo sa benissimo che non c'è nulla di sbagliato in quello che vuoi nascondere, e chi lo pensa, lo fa per colpa di persone come te”. Quest'ultima frase colpì Albert Blackthorn con una forza maggiore di quanto lo avessero fatto le parole precedenti. Come osava quell'uomo accusarlo in quel modo? Addirittura dire che ciò che faceva era una grande menzogna. Esitò. Ancora. E ancora. Di nuovo. Immagini del passato si affacciavano nella sua mente, ricordi, belli e brutti. E poi il dolore, quel gruppo di persone il cui solo obiettivo era fargli rimpiangere di essere nato, che non accettavano quello che lui era. Ma lui si era vendicato. “Oh sì, sai, mi sono vendicato... Mi sono vendicato eccome su quel gruppo di maledetti... Sapevi che Heaven's Feel ha delle segrete? Molto, molto, molto in basso, sotto terra, nascoste. La stanza di quel ragazzo è un paradiso in confronto all'inferno dove ho spedito quei dannati...” disse con voce sottile, roca. Jacob fu quasi spaventato da quel cambio repentino d'umore. L'odio fluiva dal tono di quelle parole in modo evidente, palese. Quasi terrificante.
    Jacob fece ancora un passo avanti, quell'uomo aveva bisogno d'aiuto. No, nondi aiuto. Aveva bisogno di qualcuno che lo amasse davvero per ciò che era. Per quanto lo odiasse, per quanto non potesse perdonargli di aver rinchiuso la loro meravigliosa figlia in una stanza assieme a tutti gli altri, in fondo era stato follemente innamorato di lui. Diversi anni prima, che sembravano secoli tanto lui era cambiato. Ma non appena si avvicinò, Albert estrasse un pugnale da sotto il mantello. La lama brillò nell'aria, poco prima di colpire.
    Qualcosa di molto veloce, con un rumore sordo, affilato come la lama che si interpose fra loro, lo colpì prima che facesse la sua mossa. Albert urlò, mentre alcune gocce di sangue cadevano a terra dalla sua mano ferita. Nel bancone si era conficcata un'altra lama, la stessa che aveva disarmato e ferito l'uomo che stava per uccidere Jacob. Entrambi si voltarono nella direzione da cui proveniva quel pugnale: Anne Redfox era in piedi, senza alcun cappotto, in un lungo abito nero senza maniche, che lasciava libere le braccia. Dal lungo spacco dell'abito si intravedevano alti stivali neri.
    “Dovresti ringraziarmi, bell'uomo! A quanto pare sono arrivata giusto in tempo.” Per Jacob, quella voce insolente era quanto di più rassicurante potesse sentire in un momento come quello. Sapeva che i loro destini erano in qualche modo incrociati. Sorrise alla donna, facendo qualche passo indietro. Albert fissò la donna con sguardo sbalordito. Anne Redfox aveva trovato la sua preda, e non aveva alcuna intenzione di lasciarsela sfuggire.
     
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    Nuovo capitolo che chiarisce molti punti oscuri, con una svolta inaspettata rispetto al ruolo di Albert Blackthorn in tutta la vicenda. Mi sono piaciute in particolare alcune descrizioni, come quella del tragitto da lui percorso per raggiungere la locanda.
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1 replies since 25/12/2018, 10:24   48 views
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