Esistenze Congiunte, L'Epilogo - Cresci foresta, e sboccia

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    Dal luogo in cui si fondono perfettamente Luce ed Oscurità

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    La luce del sole filtrava attraverso i vetri della finestra, scaldando il volto di Lucy, ancora addormentata. Dal piano terra sentiva rumore di piatti e stoviglie: era già ora di colazione. Si voltò lentamente, le coperte che coprivano le gambe e metà del busto, i lunghi capelli rosa sparsi sul cuscino, una parte di essi ricadeva sui lati verso il pavimento. Sentì bussare alla porta, un rumore più che familiare. Si alzò, mettendosi a sedere. Pochi istanti dopo Jacob entrò nella stanza, con un vassoio in mano: latte, dolci e frutta per la sua colazione. Ormai era diventata un’abitudine per lei. Gli rivolse un grande sorriso: “buongiorno!”. La risposta fu un altrettanto grande sorriso e un radiante buongiorno. La cordialità di Jacob era qualcosa a cui ci si abituava in fretta, portava calore ovunque andasse. E con il passare dei giorni si era abituata ad avere una famiglia. Erano passati circa due mesi da quando avevano lasciato Heaven’s Feel. Aveva provato a parlare con lui dell’altra persona che avrebbe dovuto essere lì con loro: Albert Blackthorn. Ma Lucy si era resa conto di quanto fosse doloroso per suo padre toccare quell’argomento.
    Le piaceva moltissimo vivere in quella grandissima casa: sembrava molto vecchia, antica, ma allo stesso tempo quell’edificio non mostrava alcun segno del tempo. Era enorme, con una quantità di stanze e piani che pareva essere infinita. Lucy e Jacob abitavano nell’ala est. La cosa più interessante di tutte erano gli orologi. All’interno della casa, lungo i corridoi, c’erano tantissimi orologi sospesi nell’aria: fluttuavano sospesi nel nulla, ognuno di forma, colore e grandezza diversa. Jacob le aveva spiegato che quelli erano gli orologi che scandivano il tempo di ogni essere vivente presente nelle favole e nelle storie conosciute e non. Erano disposte per tutta la casa, perché quella casa era il luogo di raccolta di tutti loro: ecco perché era tanto enorme, con così tante stanze e piani. Lì vivevano tutti assieme, vivendo le loro storie e il loro tempo. Nessuno poteva toccare gli orologi, erano intangibili al contatto. Di comune accordo, Jacob e Lucy avevano deciso di non guardare i loro orologi: volevano trascorrere il loro tempo assieme senza preoccuparsi troppo. Quegli ingranaggi, infatti, potevano dare indicazioni importanti sul procedere del tempo di ciascuno di loro, chi avrebbero incontrato, e tanto altro ancora.
    “Ma solo una persona con una speciale abilità innata può leggere fino in fondo ciò che dicono gli orologi” le aveva detto Jacob, un mattino.
    “Davvero? E conosci qualcuno in grado di farlo?” Fu la risposta di Lucy, curiosa come sempre.
    “Purtroppo no, ma penso che, in fin dei conti, sia meglio così”
    “Non vuoi trovare il suo orologio?”
    “Dicono che quando uno di noi viene dimenticato o dimenticata, o quando sparisce in qualche modo da questo mondo e da questa terra, il suo orologio diventi sempre più trasparente, fino a scomparire” lo sguardo rivolto verso la finestra della stanza della figlia era carico di pensieri e dolore, erano sensazioni impossibili da nascondere. “Ma non ho ancora avuto il coraggio di cercare quell’orologio – una volta erano proprio qui sai? In questa stanza. Si muovono un po’ come vogliono a seconda delle nostre scelte e di come viviamo le nostre vite. Poco per volta, però, si sono allontanati. Non ho idea di dove sia finito quello di Albert o se sia ancora qui in questa casa”.
    Lucy prese la sua mano, per cercare di confortarlo. Jacob le aveva raccontato tutta la loro storia, di come avevano deciso di crescerla assieme e di come quello fosse sempre stato un luogo felice per loro. Gli altri abitanti e le altre abitanti della casa, infatti, andavano e venivano con piacere, e molti, loro amici, si ricordavano ancora della piccola Lucy e di tutte le volte che si erano fermati al loro piano per salutarla o portarle qualche regalo. Quella loro storia, la vera storia, non era fatta per sminuire e ferire: aveva posto per tutti quanti e tutte quante. Ma un giorno, Albert aveva deciso di provare a visitare il mondo esterno. Inutile dire che aveva scoperto in fretta come, al di fuori, le storie non fossero così tolleranti: molte erano diverse, traviate e distrutte per preservare chissà quale ordine o morale. Fu proprio quel giorno che Albert fu brutalmente assalito da un gruppo di persone. “Da allora non è mai più stato lo stesso e.... Be, il resto lo sai anche tu”, concluse Jacob.
    “Tu pensi che possa essere ancora vivo, anche dopo il crollo di Heaven’s Feel?”
    “Io... Non lo so” fu la risposta. “Ma non è il momento di essere tristi! Sono sicuro che il tuo papà tornerà, in un modo o nell’altro! Ci vorrà del tempo per scrollarsi di dosso tutti quei rimorsi e quegli anni bui – ma sono sicuro che ce la farà” disse il cacciatore, sfoderando il suo solito sorriso a trentadue denti. Dentro di lui, però, Lucy poteva scorgere il dolore profondo che provava nel non avere tutta la famiglia riunita lì, nella loro casa, nel loro mondo. Da quanto aveva capito, Albert – ovvero, suo papà, aveva la possibilità di attraversare i loro mondi e, una volta dall’altro lato, portare chi desiderava da quella parte, come aveva fatto con Jacob, Lucy, Cenerentola e la Volpe. Quindi doveva esserci un passaggio da qualche parte. Che anche per quello servisse una vista o un’abilità speciale?
    Questi pensieri si affacciarono nuovamente nella sua testa, mentre finiva di scrivere quella lunga lettera. Lo avrebbe fatto soffrire tantissimo, quello era certo. Ma ormai aveva deciso. Richiuse la lettera, lasciandola sul tavolo. Avrebbe riunito i suoi due papà e la sua famiglia, una volta per tutte. Era certa che Albert fosse ancora vivo, da qualche parte, nell’altro mondo. Doveva ritrovarlo, per il suo bene e per quello del suo papà. Si alzò dalla sedia, guardando ancora una volta la busta con la lettera. Prima di andarsene recuperò la borsa che le avevano regalato: avrebbe portato con sé un di quel mondo, per non dimenticarsi mai le sue origini e per ricordarsi sempre la strada per il ritorno.
    Il bosco era sempre più fitto in quel punto, ma sapeva di essere vicina – pochi passi e qualche arbusto più avanti, vide ciò che stava cercando: lungo il tronco di un immenso albero si trovava una grossa spaccatura. Sembrava trasparente, quasi come se fosse acqua che scorreva lungo la corteccia. I contorni di quella zona tremavano, quasi come se non fossero stabili. Lucy, un po’ titubante, mosse qualche passo in avanti.
    “Non starai forse pensando di andartene dall’altra parte da sola, vero? Non dureresti due minuti senza di me” disse una voce all’improvviso – una voce che per Lucy era fin troppo familiare.
    “Lupo! Ma... Erano giorni che non ti facevi vedere! Dove sei stata?”
    “Mah! Un po’ di qui, un po’ di là! Vedo che tu, invece, ti sei data parecchio da fare! Cos’è questa storia?”
    “Devo tornare di là, per forza.... Voglio che la mia famiglia torni ad essere quella di una volta: tutti insieme nella nostra casa!” Il tono di questa risposta sorprese il Lupo – l’aveva sentita parlare solo poche volte con tanta risolutezza e coraggio.
    “Beh, devo dire che ho sempre apprezzato quell’altro posto! Anche se il tuo papà non è esattamente simpatico! Ma potrei cogliere l’occasione per dirgliene quattro!”
    “Ma! Non so se...” Ma il Lupo ormai l’aveva già superata. Come al solito non ammetteva repliche alle sue decisioni. Lucy sorrise, avviandosi dietro di lei. Con lei dalla sua parte non avrebbe avuto più paura di nessuno.

    Mani. Mani ovunque. Le vedeva muoversi. Le vedeva arrampicarsi su tutte le persone che entravano e uscivano dalla stanza. Su di lei. Vedeva che si univano, braccia comprese. Che si legavano le une alle altre, creando infinite catene che univano lei alle altre persone. Le altre persone a lei. Ogni volta le vedeva emergere come se fossero una serie infinita di ragni: quelle dita sinuose, non di questo mondo – come se zampettassero sui corpi di tutti. Come facevano a non sentirle? Come faceva lei a non avvertirle sul suo corpo? Sulla sua testa? Sui suoi vestiti? Più provava a toccarle meno ci riusciva: le vedeva ma non poteva afferrarle. Così tante mani intorno a lei che potevano toccarla, ma allo stesso tempo così irraggiungibili. Tanto vicine eppure lontane come la Luna che vedeva nel cielo attraverso la finestra della sua stanza. Alcuni giorni uscivano dalle pareti, da dietro i quadri: si univano in una danza soprannaturale e inquietante, che la terrorizzava e la straniva ogni volta. In altre occasioni la facevano sentire meno sola. Si trasformavano in figure umane e non umane, si univano in quella danza sconcia di fronte a lei, per poi dividersi e unirsi di nuovo.
    La faccia di una figura femminile le andava incontro a velocità inumana per fermarsi a pochi centimetri dal suo volto: quegli occhi vuoti, privi di vita ma allo stesso tempo in grado di assorbire tutto lo spazio intorno a loro. Quei visi si contorcevano e sparivano in continuazione. Si deformavano. Come le mani. Eccole di nuovo, sul suo corpo, prese a camminare, arrampicarsi, contorcesi, strusciare su tutti i suoi vestiti. I primi anni aveva urlato – non sapeva cosa volessero dire quelle illusioni. Sua madre, Elizabeth – anzi, la Signora Blackthorn ormai, le aveva detto di smetterla di inventarsi tali blasfemie, che tutto quello non esisteva. Di non cedere a quella tentazione piena di malvagità. Suo padre, non l’aveva mai nemmeno degnata di uno sguardo da quando aveva scoperto ciò che vedevano i suoi occhi. Aveva perso il conto degli anni che aveva trascorso in quella stanza. Senza poter uscire. Senza poter fuggire. In compagnia di presenze altre, non di questo mondo. Ma quale mondo? Si era ritrovata a pensare spesso. In quale mondo esisto io? Da quanto? Per quanto? Sono io l’estranea qui e loro gli abitanti di questo mondo?
    Un giorno le domestiche erano fuggite urlando. Chi venne dopo le disse che non si erano mai più riprese: sua madre l’aveva picchiata per quello che aveva fatto. Aveva mostrato loro il male che vedeva ogni giorno. E loro non erano state in grado di sopportarlo. Ma lei sì. Sorrise mentre le mani iniziavano di nuovo a muoversi per tutta la stanza. Gli specchi sui muri riflettevano il suo sorriso e il mondo da cui quelle mani arrivavano: un mondo spoglio, che cambiava in continuazione, in cui non si era fatti di carne e ossa, o forse sì, ma anche quello non era di certo stabile in quel posto fatto di putrefazione, vita, e sconvolgimenti. Come sono giunti qui questi specchi? Non c’erano prima. Ma ci sono adesso. O forse non ci sono nemmeno. Perché stava ridendo? Perché quegli specchi, quel mondo, quella stanza, erano suoi. E avrebbe fatto vedere a tutti ciò che aveva dentro di sé, ciò che nessuno l’aveva aiutata a capire: avrebbe svelato come vedeva lei il mondo. Li avrebbe sconvolti. Sì. Li avrebbe spaventati. Traumatizzati. Sorrise ancora – lei aveva il suo mondo, quegli specchi non lo avrebbero contenuto ancora a lungo. I suoi adorati genitori l’avrebbero capito molto presto. Le loro visite si sono interrotte. Pazienza: lei aveva tutta la compagnia di cui aveva bisogno lì, in quel posto.
    E poi venne il giorno. Il giorno in cui quei muri crollarono, una volta per tutti – i vetri si frantumarono crollando su loro stessi. Il pavimenti si squarciò, mostrando i piani di sotto. Heaven’s Feel stava crollando. Gli specchi sui muri si diluirono come acqua, allargandosi, accogliendola perché non cadesse nel vuoto. Le mani, quella volta, l’avevano aiutata. Eppure, erano ancora intoccabili. Cosa voleva dire toccare? Ormai niente aveva più senso.
    Quanto tempo era passato? Incalcolabile. Ma che cos’era il tempo? Per lei era sempre stato tutto uguale, non aveva mai fatto differenza alcuna. I suoi specchi si erano riaperti. Si guardò, il riflesso della fanciulla che era diventata: i suoi lunghissimi capelli neri, la pelle bianchissima, gli occhi scuri. Il suo lungo abito nero, che sembrava quasi uno degli abiti antiche che indossavano le dame nei castelli. Portò le mani verso il collo, per accarezzare la collana che portava – un dono delle sue mani. Ma quando gliel’avevano data? Lo avrebbe capito più avanti.
    Lasciò quella foresta. Le sue mani si stavano radunando tutte in un punto, all’interno di quel gigantesco groviglio di alberi che ora sorgeva sopra la prigione da cui era uscita. Kathrine. Kathrine. Kathrine. Il suo nome riecheggiava fra le cortecce, le foglie, le radici, saliva dalla terra assieme agli spiriti degli altri mondi – dei suoi mondi, della sua oscurità. Ma chi era lei? “Chi sono io?” Si chiese con una voce bassa, quasi sussurrando. Sorrise di nuovo. “Kathrine Blackthorn”. Quel nome che rievocava in lei così tanti ricordi e tanto dolore, ma così tanta soddisfazione. Qualcuno era nella sua foresta. Stava correndo. Le mani la inseguivano, ma tanto lei non poteva vederle. “Corri, so dove stai andando... I nostri destini sono ormai incrociati, e stanno per congiungersi” disse Kathrine osservando le mani correre verso quella ragazza. Si voltò, camminando lentamente verso l’uscita di quel posto. Il suo mondo stava arrivando, e forse lei sapeva come controllarlo.

    Lucy continuava a correre. Voleva uscire da quell’immensa foresta. A quanto pare erano passati anni dall’ultima volta in cui era stata lì. Il Lupo aveva ragione: il tempo dall’altra parte scorreva in modo completamente diverso da quello. Raggiunse il cancello. Fece un lungo e profondo respiro. Il sole al di fuori di quelle fronde era accecante, ma il suo calore la rassicurava allo stesso tempo. Per un istante, il Lupo dentro di lei si ridestò, e le due furono catturate da una strana sensazione: come se qualcuno fosse in quel luogo. Come se tantissime persone si trovassero in quella foresta. Fu il Lupo a risvegliarla da quella specie di trance in cui era caduta, mentre cercava di capire cosa fossero. “Hai ragione, non abbiamo tempo per questo!” Spalancò il cancello. Alcune foglie volarono nel vento. Era pronta per la sua ricerca.


    One Shot conclusiva della serie Esistenze Congiunte. Il sottoscritto si augura che sia stata una storia interessante e che abbiate gradito il viaggio fino a qui. A presto per le nuove storie di Kathrine e Lucy!
     
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    E arriviamo all'epilogo di Esistenze Congiunte, che più di essere la fine di un'avventura, è l'inizio di una nuova storia. Il tanto anticipato, e da me atteso, personaggio di Kathrine Blackthorn fa la sua comparsa e non delude le aspettative. Direi che le premesse per un ottimo minus ci sono tutte e aspetto impaziente di vederla in azione.
    EXP: 13
     
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