[Fanfiction] L'invito

Fanfiction Lovecraft-Medaka Box

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    Questa è una fanfiction che mescola il mondo di Medaka Box - e in primo luogo i miei pg - con gli orrori ideati da Lovecraft. Orrori lovecraftiani in parte recuperati fedelmente, in parte riadattati a mio giudizio, e in parte inventati di sana pianta.
    Rispetto alle altre storie di Haiiro questa non rientra nella continuità - come si definisce di norma - quindi gli eventi che accadranno non impatteranno sulle sue normali vicende. Altra differenza è che il pensato è messo in corsivo, mentre il parlato rientra tra le virgolette caporali
    Spero che vi piacerà.


    C’è un uomo. È in piedi in mezzo alla folla di persone che si muovono nel centro commerciale. Immobile, statuario: non è fermo come chi aspetta la moglie, o i figli o gli amici, non ha quel nervosismo dell’attesa. Tutto in lui esprime una decisa quiete.
    È alto, sovrasta la gente intorno di una testa. Forse di due. Sarà sui due metri? Possibile. Ha la pelle scura, i lineamenti decisi, affilati. Nobili. Sembra una di quelle statue di fronte ai monumenti. Ma i suoi occhi non sono quelli vuoti e inespressivi di una statua. Sono fiamme che brillano nell’oscurità di un volto altrimenti impassibile.
    Mi fissano, con interesse, con malignità. Non guarda altre persone e le altre persone non guardano lui. Nessuno si gira a osservarlo, nonostante spicchi su tutta la folla circostante. So perché: nessuno lo vede, se non io. Ma io l’ho già visto, lo so, anche se l’ho dimenticato. I suoi occhi mi fissavano mentre in sogno percorrevo un lungo corridoio. Era con me, mentre sognavo l’incendio che ha distrutto la mia casa. Mi spiava mentre il mio corpo si univa a quello di Kasumi e non ricordo se fosse realtà o sogno.
    Perché mi segui? Perché perseguiti i miei sogni? Perché sei qui, in quest’ora che non è sogno ma veglia? Ma quando le mie labbra si spalancano, la domanda è un’altra.
    “Chi sei?” Non la pronuncio, mimo solo le parole con le labbra. Lo vedo distendere la bocca prima inerte in un sorriso. Rabbrividisco. Perché quello è il sorriso di un lupo di fronte alla sua preda.


    «Non pretendo da te assoluta concentrazione, Haiiro. So che sarebbe come chiedere a un pesce di parlare. Però puoi almeno guardare come sto e darmi un tuo parere.»
    Il ragazzo sussulta e si volta verso Kasumi. Il tono sarcastico è una costante della ragazza, c’è abituato e non se ne preoccupa neanche più. Ma l’irritazione che le dipinge il viso è un pessimo segnale, lo sa. Accanto a lei una commessa sulla quarantina sorride imbarazzata, ma con un’ombra di divertimento.
    «Eh, i ragazzi non sono interessati a vestiti e simili. Però con una così bella ragazza io presterei un occhio o anche due.» Tenta di sdrammatizzare, di distendere l’ambiente. Ma non ottiene risposta. Kasumi guarda in silenzio Haiiro, un silenzio che l’invita a dire qualcosa e insieme lo avverte di essere cauto nel parlare.
    Ma lui non si sente in grado di scegliere le frasi con giudizio. A malapena riesce a fare mente locale di quanto sta accadendo. Kasumi. Appuntamento. Shopping. Negozio di vestiti. Mette i pezzi del puzzle assieme. Kasumi si è provata un vestito nuovo e gli ha chiesto come sta.
    «Ehm…» Mormora per prendere tempo. Per osservare la ragazza. Cosa dire? Non presta attenzione ai vestiti, lui, e trova Kasumi bella con qualsiasi cosa indossi. Non è civetteria, è la realtà. Ma non è quello che Kasumi vuole sentirsi dire. Lei vuole un giudizio sul vestito. Lui la perlustra con lo sguardo cercando qualcosa da dire.
    «Mi piace il colore della felpa.» Capisce che è un errore appena lo dice. Anche se non sa perché. La commessa distoglie gli occhi, non sorride neanche più, prova imbarazzo allo stato puro, senza possibilità neppure di divertirsi, non per chi è lì.
    Kasumi invece lo guarda fisso ed è molto peggio. C’è rabbia e offesa in quello sguardo. Non dice niente e questo è terribile. Haiiro sa reggere il suo sarcasmo, ma il suo silenzio lo annichilisce. Sa che solo quand’è veramente infuriata Kasumi non dice nulla.
    «Cosa…?» Prova a chiedere timidamente. La commessa pare sul punto di rispondere, ma Kasumi l’anticipa. Non con parole, rimane ancora in silenzio, ma afferra l’etichetta del prezzo del vestito provato. L’etichetta dei jeans, non della felpa. Quella è la stessa che aveva indossato per l’appuntamento e che possiede da tempo.
    «Oh…» È l’unica cosa che possa dire prima che Kasumi si volti e vada a cambiarsi. Haiiro fa un passo verso di lei, allunga il braccio, mormora una prima sillaba, «Ka…» Non va oltre. Non sa cosa potrebbe dire. Scusarsi? Non crede servirebbe, non ora. Si sente un idiota.
    «Magari la prossima volta potrebbe fare più attenzione…» È un rimprovero lieve, quello della commessa, fatto con un sorriso a fior di labbra di cortesia. È un rimprovero giusto. Da Kasumi avrebbe accettato questo e altro. Ma da parte della commessa diventa solo un modo per sfogare la sua frustrazione.
    «Ma lei che ne vuole sapere?! Si faccia gli affari suoi e non si immischi!»
    Il sorriso scompare dal volto della commessa. Arriccia le labbra, lo sguardo duro. Non risponde solo perché conscia del suo ruolo, ma non è intenzionata a rimanere lì. Gira i tacchi e va a trovare nuovi clienti che siano bisognosi del suo aiuto. A quella coppia non serve più.
    Haiiro rimane da solo a maledirsi. Nei suoi pensieri indirizza la rabbia prima verso di sé, poi verso la commessa, infine sul tipo che l’ha distratto. Che tipo? Si chiede l’attimo dopo.
    Si gira a osservare la folla oltre i vetri del negozio. Folla multiforme e vaga, composta da mille volti e nessuno. Tutti si confondono tra loro, nessuno attira la sua attenzione. Ma c’era qualcuno. Chi? Non lo ricorda. Forse non c’era nessuno, si dice. Forse era stata solo una sua fantasia. Un sogno a occhi aperti. Gli capitano spesso. Quello era venuto nel momento peggiore. Eppure ha l’impressione che fosse qualcosa di importante.
    Mah, tutti i sogni sembrano tali. Non ha voglia di pensarci sopra. Ha altro su cui riflettere. Come riappacificarsi con Kasumi, ad esempio. E poi era solo un sogno. Per un attimo sorride a quel pensiero. Lui è l’ultima persona che può dirlo.
    Ma il problema che deve affrontare ora è un problema quotidiano. Un problema che ogni persona, ogni coppia affronta talvolta. Non ha nulla a che fare con sogni e anormalità. Quasi quasi preferirebbe che fosse il contrario. Almeno con le anormalità le cose sono più semplici, di norma. Affrontare una Kasumi incazzata nera verso di lui, invece, era una vera sfida da far invidia a ogni altra furia.
    Si dirige verso il camerino della ragazza. Pensa a qualcosa per tirarla su, per farle dimenticare la figuraccia. Lascia alle sue spalle ogni domanda su sogni e misteriosi personaggi intravisti nei sogni. Non è quello il problema. Non quel giorno.
     
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    Camminano fianco a fianco, con solo dieci centimetri forse tra le loro braccia. Ma quei dieci centimetri paiono chilometri, tanto è profondo il fossato tra i due.
    Kasumi non ha aperto bocca, se non per pochi monosillabi in risposta ad Haiiro. Il suo è un silenzio furibondo. La sua camminata è affrettata e diseguale: accelera a gran velocità, poi rallenta, quasi si ferma e riprende di botta. Come se volesse metterlo in difficoltà. Come se volesse scollarselo di dosso. Ma Haiiro le sta dietro, nonostante tutto.
    Non riesce però a superare quel muro di silenzio. I suoi tentativi di dialogo sono incerti e poco convinti. Il senso di colpa lo frena. Kasumi non ha incrociato il suo sguardo da allora. Se non una volta, quando è uscita dal camerino. Abbastanza perché Haiiro notasse il rosso nei suoi occhi. Ha pianto, nel camerino. Ha pianto per colpa sua. Si sente una merda.
    Continua a ripetersi che deve cominciare a parlare, deve fare qualcosa. Perché quel loro appuntamento non può finire in quel modo, così, per una questione tanto stupida. Ci pensa per tutto il tragitto. Tanto da essere stupito quando Kasumi gli rivolge la parola. Tanto da comprendere con un paio di secondi di ritardo che la parola è uno spento e spassionato «ciao» e che sono di fronte alla casa della ragazza. E quando prova a far qualcosa, a muoversi verso di lei, a richiamarla, la porta si è già chiusa alle spalle di Kasumi.
    Resta qualche secondo a osservare la porta chiusa. Sa che non si aprirà di nuovo a mostrargli il volto di Kasumi. Non è quel tipo di ragazza che torna indietro a quella maniera. Semplicemente non riesce a comprendere come tutto possa andare così male. Per colpa di una felpa.
    Quando si volta e riprende a camminare, non ha una direzione in mente, una qualche meta. Lascia che sia il suo corpo a muoversi. La sua mente vaga. Riflette su cosa avrebbe potuto fare perché le cose non andassero così male. Dal fare un commento sui jeans che lei aveva provato, all’imbastire dopo la figuraccia uno spettacolo da strada, per tirarla su.
    Avrei potuto usare il Dream Teller per improvvisarmi ipnotizzatore. O il Figthing Sleep per fare l’acrobata. Avrei anche potuto farli entrambi: l’ipnotizzatore acrobata.
    Il pensiero lo fa sorridere. Perché no? Si dice. Può farlo. Anche se ora non ha più senso. Kasumi se n’è già andata e lui non ha interesse ad allietare la folla. Ma può farlo per sé. Non perché serva a qualcosa, ma perché tutto è meglio che rimuginare su quanto non può cambiare.
    Chiude gli occhi. Sprofonda nel dormiveglia. Si cala in un sogno di negozi a mezz’aria collegati da ponti tibetani, commesse dalla bocca troppo larga e il sorriso a cinquantaquattro denti, schiene di persone che si allontanano senza girarsi. Si mette a salire i ponti, a saltare da uno all’altro, a fare l’equilibrista sopra funi oniriche.
    Qualcuno tra le persone vive il sogno come una fantasia in un angolo della propria mente che svanisce poco dopo. Qualcuno guarda a bocca aperta lo spettacolo di quei negozi fluttuanti e del ragazzo che salta da corda a corda. Qualcuno riconosce o crede di riconoscere nella figura di spalle una persona una volta amata e corre alla sua volta, senza mai raggiungerla. Qualcuno viene inghiottito nel sogno tanto da mettersi a percorrere quei ponti, solo per ruzzolare a terra una volta realizzato che quei ponti non sono mai esistiti, o lo sono stati solo per il tempo di un sogno. Uno di questi percorre per molti metri il ponte prima che i suoi piedi incontrino l’aria e lui cada a terra da un’altezza sufficiente a farlo gridare tenendosi la gamba destra. Ma la maggioranza delle persone, prese dal sogno e credendo pure l’uomo un sogno, non gli prestano attenzione.
    E intanto Haiiro sale per negozi e ponti che sa svaniranno nell’attimo in cui aprirà gli occhi. Sempre più in alto, ma mai abbastanza lontano per raggiungere la figura di schiena. Ma chi è? Perché l’inseguo? Si accorge di non ricordarselo più e si ferma, sul tetto di un negozio. Si sente confuso, si sente smarrito. Sente di aver perso qualcosa di importante. Dietro di lui qualcuno ride. Si gira. Un uomo alto, dalla pelle nera e i lineamenti decisi e nobili, ma crudeli lo fissa. La figura muove il braccio come per scacciare una mosca.
    C’è il vuoto sotto di Haiiro. I negozi e i ponti sono scomparsi e lui sta cadendo. Da in alto, tanto in alto. Sa cadere, ma da quella altezza anche lui non rimarrà incolume. Richiama Shero, la sua ombra. Sotto di sé, fa da cuscino, attutisce la caduta. Haiiro è disteso a terra. Volge gli occhi chiusi all’uomo alto. È ancora lì, sospeso in aria a fissarlo con quei suoi occhi impenetrabili e il sorriso maligno.
    Haiiro apre gli occhi. Sopra di lui non c’è nessuno. Come non ci sono negozi o ponti tibetani o chi si allontana senza girarsi a guardarlo.
    Alcune persone lo osservano confuse, altre girano lo sguardo ancora stordite, ancora incerte su cosa sia realtà e cosa fantasia. Qualcuno ha chiamato un’ambulanza per soccorrere un uomo che si è rotto la gamba.
    Haiiro si rialza in piedi. Non ha subito danni. Shero se n’è già andata. Avrebbe attirato troppo l’attenzione. Anche così, troppi sguardi sono girati verso di lui. Si sente come una preda in trappola e non sa perché. La sua reazione è quella istintiva di ogni preda. Corre. Fugge via, lontano da chi non sa neanche lui.
    Tutto quello che ricorda sono vaghi frammenti del sogno – negozi, ponti e spalle – e frammenti della realtà – persone attorno a lui, sguardi nella sua direzione. Tra questi frammenti vi è anche la figura di un uomo alto, la pelle nera, i lineamenti decisi e malevoli.
     
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    Solo quando raggiunge il suo appartamento all’Ovile si accorge di non sapere cosa fare. Credeva che l’appuntamento con Kasumi sarebbe durato più a lungo. Avrebbe dovuto durare più a lungo e concludersi con ben altra nota. Ma non è andata così.
    Incerto si muove per le poche stanze del locale, apre credenze, sposta oggetti, rigira una tazza sporca tra le sue dita. Come se gli oggetti potessero dargli istruzioni, qualcosa da fare. Va in camera sua, tira fuori i libri di scuola, legge le prime righe del testo. Pronuncia a mezza voce le parole che legge, eppure non riesce a comprenderle. Scorrono come acqua attraverso il setaccio. Lascia tutto e va in cucina a farsi un caffè.
    Dovevo farlo prima. Nulla lo rimette su più di un caffè. Si gode l’aroma che si sprigiona dalla bevanda prima di portarla alla bocca e berla a piccoli sorsi. Riconosce il gusto amaro, leggermente bruciacchiato, che adora. Eppure non riesce a trarne il solito ristoro. Per quanto cerchi di non pensarci, di concentrarsi sul gusto di caffè, il pensiero dell’appuntamento è sempre lì.
    Il suo sguardo cade sul vetro del forno, che riflette in modo traslucido l’ambiente alle sue spalle e lo stesso Haiiro. Però non lo guarda veramente: solo i suoi occhi si fermano su di esso, la sua mente invece vaga. Torna al negozio di vestiti. A Kasumi che sfila di fronte ai suoi occhi. Alla commessa con quel suo sorriso artificioso in volto. All’uomo nero e alto che lo osserva. Che lo sta osservando.
    Il suo corpo si tende, le ginocchia si flettono pronte a scattare. La mano con cui tiene il caffè sussulta e rischia di rovesciarlo, quella libera si chiude in pugno. Due istinti si sovrappongono: quello di girarsi e osservare quanto si cela dietro di lui. Quello di chiudere gli occhi e affidarsi all’istinto combattivo del Fighting Sleep. Riesce a tenerli a bada entrambi.
    Se mi giro, se distolgo gli occhi, lui scomparirà. Non sa perché lo pensa, ma sente che è così. Quindi rimane a guardare la superficie del forno, no, il riflesso sul vetro. Un riflesso sbiadito, che si confonde con l’interno scuro del forno. Eppure la sagoma che si intravede, nera e alta, è inconfondibile. L’ha già vista, la ricorda: nei suoi sogni, nelle sue fantasie.
    Ma quello non è un sogno, non è una fantasia a occhi aperti. Sa di essere ben sveglio, di non star dormendo. Il peso della tazza sulla sua mano, il caldo che da essa traspare sono concreti, reali. Il gusto di caffè è ancora nella sua bocca, anche se guastato dalla sensazione di pericolo. E allora perché quella persona è lì? È solo un frammento dei suoi sogni, deve esserlo. E allora perché…?
    Sussulta. Il riflesso sul vetro si è mosso: l’uomo ha allungato una mano verso di lui. Sente il corpo formicolare, l’urgenza fisica di muoversi, di non rimanere immobile. Di reagire. La tiene a bada. Poi la mano tocca la sua spalla.
    Non ci pensa, non potrebbe farlo. Tutto avviene talmente velocemente da lasciare la sua mente incapace di comprendere cos’è successo. Sa solo che la tazza è finita in frantumi e il caffè imbratta parete e pavimento. Si è girato e non c’è nessuno dietro di lui. Gli ci vogliono diversi secondi per capire che è stato lui a rompere la tazza. Nel momento in cui l’essere ha toccato la sua spalla, lui si è girato e gli ha lanciato contro la tazza di caffè. Ma non vi era nulla di solido che potesse colpire, se non il muro di fronte a sé.
    Non c’è nessuno lì. Forse non c’è mai stato nessuno. Si chiede cosa fosse, se il frutto di una qualche anormalità o un qualche attacco nemico. O se lui sia solo impazzito. Ha sempre pensato che prima o poi sarebbe successo. Prima o poi non avrebbe più retto. Prima o poi i sogni, le illusioni, avrebbero superato le sue fragili difese e lui sarebbe diventato incapace di distinguere realtà e fantasia.
    Alla fine è successo…
    Abbassa il braccio con cui ha lanciato la tazza. Ogni suo pensiero svanisce, cancellato dal puro e semplice dolore. Deve serrare le labbra per non gridare. Appena ha mosso il braccio ha sentito una fitta, un dolore bruciante alla spalla. Lì dove l’essere l’ha toccato. Con frenesia, imprecando per il dolore, si toglie la maglia, poi la maglietta. Non ci sono segni sui vestiti. Ma sulla sua pelle, sì.
    L’impronta di cinque lunghe dita è incisa sulla sua carne. Cinque segni neri, cinque solchi, cinque presagi di sfortuna. Intagliano la carne per due centimetri buoni. La pelle intorno è nera, come se fosse stata bruciata. Ma non è stato il fuoco a provocarlo.
    La figura riflessa sul vetro. È reale, in qualche modo. Non come le persone normali, no. L’ha vista prima nei suoi sogni, poi nelle sue fantasie a occhi aperti. Infine nel mondo della veglia, ma solo come riflesso su un vetro. Che razza di essere è? Se è un sogno, intangibile nella realtà, forse può affrontarlo nei sogni. Oppure sarebbe più forte lì? Era comparso nei sogni, all’inizio, e solo dopo è riuscito a manifestarsi nella realtà e a ferirlo.
    Haiiro scuote la testa. La ferita continua a fargli male. Va dal rubinetto, fitte di dolore a ogni movimento, e fa scorrere l’acqua. Ci immerge la spalla ferita. Solo altro dolore.
    Va a mettersi su una camicia, la più ampia che trova nell’armadio. Anche così il semplice contatto del tessuto con la ferita gli provoca dolore. Stringe i denti, come ha sempre fatto. Non può certo uscire a petto nudo. Perché se ha imparato qualcosa, nel tempo passato all’Hakoniwa, è che non deve farsi carico lui solo di ogni problema. Se ha bisogno può chiedere aiuto ai suoi amici, ai suoi compagni. Non è più solo nell'affrontare le sue battaglie.
    È con quella convinzione che apre la porta del suo appartamento. Ma di fronte a lui non si apre il famigliare corridoio. Di fronte a lui vi è un buio abisso, puntellato da stelle lontane e fredde, sferzato da un vento crudele. Lontano risuona l’odiosa risata della nera figura.
     
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    Il suo sguardo si perde nella vastità dello spazio di fronte a lui. Una vastità che rischia di annientarlo, di ridurlo a un nulla. Ma una vastità che lo cattura, lo affascina. Chi ha osservato dall’alto di una montagna il panorama sottostante può comprendere, in minima parte, la sensazione di Haiiro. Ma essa è anche la sua rovina. Perché mentre è immerso nella contemplazione, dietro di sé sente il suono secco di una porta che si chiude. Si gira e la porta non c’è più. Nulla del suo appartamento, di quanto può essergli famigliare, è rimasto. Tutto intorno a lui vi è lo spazio siderale e le stelle lontane. La risata è cessata; l'unico suono che ode è una lontana melodia, troppo tenue per distinguerla. Eppure la sua pelle si tende e rabbrividisce a quelle indistinte note.
    Abbassa gli occhi: sotto di lui vi è il vuoto apparente, eppure egli non cade. Non ha la sensazione di star toccando terra, ma i suoi piedi sono immobili. Muove un passo, poi un secondo e un terzo ancora. Avanza, anche se gli sembra di rimanere nella stessa posizione, tanto è vasto quel luogo. Non avverte resistenza sotto i suoi piedi, eppure non calano a più di una certa distanza.
    «Che luogo è questo?»
    «È lo spazio esterno, in cui quelli della tua genia non possono accedere, se non per rare eccezioni. Tu sei una di quelle.»
    Di fronte a lui, dove prima non vi era che lo spazio vuoto tra le stelle, si erge un uomo. È colui che ha visto nei sogni, nelle fantasie a occhi aperti, nel riflesso di un vetro. E insieme non lo è. L’uomo che ha visto aveva la pelle scura delle popolazioni arabe; colui che ha di fronte ora è una sagoma nera come gli interstizi tra le galassie, i contorni della sua figura appena distinguibili dallo spazio circostante. L’uomo che ha sognato aveva occhi come fiamme; colui che si erge contro di lui ha stelle che brillavano come occhi. L’uomo che l’ha perseguitato era alto tra gli umani, forse due metri; colui che lo sovrasta appare immenso come un corpo celeste. Eppure, per quanto immenso, Haiiro riesce a vederlo nella sua interezza.
    Il suo primo istinto di fronte a quella colossale apparizione è di fuggire, ma si rende conto che sarebbe inutile. Non vi è luogo dove possa rifugiarsi o nascondersi, solo uno sterminato nulla. Non può fuggire.
    Richiama al suo fianco Shero, l’ombra. Non sa quanto possa fare contro quell’essere, ma avere un alleato vicino servirà almeno a rincuorarlo. Ma Shero non compare. Shero, la sua ombra, la sua metà, parte di sé stesso, non può raggiungerlo. È quello più di tutto il resto, più degli immensi spazi siderali, più della maestosa e terrificante sagoma di fronte a sé, a fargli comprendere quanto sia lontano dal suo mondo, dalla sua normalità.
    Deglutisce un grumo di saliva. L’essere torreggia ancora su di lui, immobile e muto. Il bagliore dei suoi occhi non lascia trasparire nulla. Pare capace di attendere eoni in quella posizione, senza provare noia o fastidio. È questo un dio? Si scopre a chiedere Haiiro. L’attimo dopo prova vergogna per quel pensiero. Non è quello l’atteggiamento che lo salverà. Domando la sua paura, rivolge la parola all’essere.
    «Chi sei tu? Perché mi hai portato qua?»
    «Portato?» La voce rimbomba con forza per gli spazi vuoti. Monocorde, priva di ritmi e accenti. Priva di umanità. «Mortale, sei stato tu a invitare un mio me presso di te. Prima l’hai condotto nei tuoi sogni, poi nella tua realtà. Ed egli, in cambio, ti ha portato da me.»
    «No… io non ho fatto nulla…»
    L’essere non replica, ma rimane a fissarlo muto. Sul volto dell’uomo dalla pelle scura Haiiro aveva letto crudeltà e perfidia, disprezzo anche. Ma su quel volto non leggeva nulla. Non è lo stesso essere.
    «Cosa intendi per ‘mio me’? Eri tu quello che ho visto nei miei sogni o un altro?»
    «Era un mio io. Voi umani avete un io. Tu, eccezionalmente, ne hai due. Ma io ne possiedo cento e più. Ognuno di essi è me, una delle forme che mi compongono.»
    Haiiro scuote la testa, confuso. Non capisce cos’è reale o meno. Cos’è verità e cosa menzogna. Pensava che la sua esperienza con le anormalità l’avesse preparato a tutto. Si sbagliava.
    «Voglio tornare a casa. Al mio mondo. Come posso fare?»
    «Hai condotto da te un mio io. Pertanto tu sei stato condotto da me.»
    Il tono è impersonale, ma la condanna celata da quelle parole è senza appello. Per un attimo Haiiro ne è annichilito. Poi ricorda le parole dell’essere. Due io. Ne possiedo due.
    «Dov’è la mia ombra? Dov’è l’altro me, Shero? Voglio lasciare lui in questo luogo, mentre io tornerò sulla Terra.»
    «L’altro tuo io è sulla Terra. Posso aprire un percorso per gli spazi esterni affinché tu ritorni al tuo mondo, al luogo che consideri casa, ma mi devi promettere di consegnarmi l’altro tuo io.»
    Apre la bocca per rispondere, per acconsentire, poi si ferma. La paura lo blocca, l’enormità di quanto sta per fare lo sovrasta. Sta per cedere la sua ombra, sé stesso, a quell’essere sconosciuto. Come si vive senza la propria ombra?
    Scruta lo spazio intorno a sé. Chiude gli occhi. Entra nel dormiveglia. Vuoto: nello spazio siderale intorno a sé e nella sua mente. I sogni non si presentano a lui. È perché sta già sognando? Tutto quello che ha vissuto non è altro che un sogno e il suo corpo giace addormentato nella camera dell’appartamento? Oppure quel luogo è tanto lontano dal mondo della veglia come da quello dei sogni? Solo una cosa sa: non ha altre vie di fuga.
    La sua gola è secca: è la paura a renderla tale. Le parole escono con difficoltà, a grumi, impastate. Ma il loro senso è inequivocabile.
    «Lo prometto.»
    «Di’: “Cedo il mio altro io a Nyarlathotep e accetto la sua protezione”.»
    «Cedo il mio altro io a Nyarlathotep e accetto la sua protezione.»
    Subito sente che qualcosa è cambiato. Una catena lo lega, le parole che ha pronunciato. Ma quelle stesse parole legano l’entità, Nyarlathotep, con cui le ha scambiate. Egli solleva un braccio e nell’alcova tra questo e il suo corpo si forma una corona di luce.
    «Vai, mortale. Percorri gli spazi esterni fin quando non giungerai a una porta d’argento. Focalizza dove vuoi andare e lì sarai condotto. In cambio prenderò il tuo altro io.
    Dovrai attraversare i reami degli Altri Dei, ma io osserverò il tuo incedere e stenderò una strada che ti protegga. Incontrerai molte cose folli e terribili alla tua mente, ma non dovrai mai deviare dal sentiero. Sarebbe la tua fine.»
    Non c’è minaccia in quelle parole. Non c’è emozione. Solo la semplice e implacabile verità. Haiiro attraversa il cerchio di luce.
     
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    Di fronte ad Haiiro si stende una pianura. Gli spazi siderali sono svaniti, l’unica traccia che ne rimane è alta nel cielo scuro, dove brillano luci lontane di stelle e un grosso ovale. Non è la luna, anche se ne ha la dimensioni. Al suo centro brilla una pupilla stretta da felino, l’iride di un colore indefinito. Gli pare giallo all’inizio, poi pensa sia rosso e dopo ancora verde. Più lo guarda più la natura di quel colore gli sfugge. Alla fine distoglie lo sguardo. Sa cos’è: un’altra delle cento forme di Nyarlathotep. L’essere, il dio se tale è, ha mantenuto la sua promessa di osservarlo.
    Sotto di sé ha una strada, nera e lucente; pare di vetro o di una gemma proibita. Vorrebbe lanciarsi lontano da quella superficie che troppo gli ricorda il nero degli spazi siderali. Ma l’essere l’ha avvertito di non lasciare il sentiero quindi si fa forza e avanza. La pianura gli era sembrata vuota e vasta al primo sguardo, eppure dopo pochi passi si trova di fronte a un bosco. Non esita; conosce quelle illogicità così frequenti nei sogni. Inoltre il sentiero si snoda al suo interno, sa che deve seguirlo secondo le istruzioni dategli. Ma Nyarlathotep gli ha detto anche altro: avrebbe incontrato in quel luogo molte cose folli e terribili.
    Sussulti accompagnano il suo passaggio per il bosco, movimenti intravisti con la coda dell’occhio e persi l’attimo dopo. Ombre che saettano nel buio. Si chiede quali esseri abitino il bosco. Ha la sua risposta quando uno dei rami si snoda verso di lui e apre serpentiformi fauci. Ma nessun suono esce dalla cavità. Come un segnale gli altri alberi smettono di celare la loro forma. I loro rami sono serpenti che guizzano verso il ragazzo o si gettano contro altri alberi ingaggiando surreali combattimenti. Gli stessi alberi, con goffi passi, si avventano l’uno contro l’altro. Mordono, si stringono nelle rispettive spire, si uniscono e si separano nella forsennata lotta. L’intero bosco si muove, combatte contro sé stesso, minaccia Haiiro con feroci spire.
    Lui è assediato da ogni lato, barcolla a destra e sinistra a seconda dei rami-serpenti che lo attaccano. Poi si accorge: gli alberi non possono avanzare sul nero sentiero, i loro rami non possono allungarsi più che pochi centimetri al suo interno e poi devono ritrarsi. Il blasfemo sentiero lo protegge da quegli esseri; Nyarlathotep blocca la loro avanzata. Haiiro riprende il cammino; con tutte le sue forze cerca di non badare alla lotta dei mostruosi alberi.
    Com’è comparso così il bosco svanisce. Cammina ora per una distesa sassosa, grosse rocce che lo circondano da ogni lato. I massi si espandono e contraggono come se stessero respirando. Quando il sentiero conduce Haiiro vicino a essi, questi aprono mille occhi a guardarlo; ogni masso fa sguizzare fuori una lingua giallastra che si agita nell’aria cercando di ghermirlo. Haiiro avanza.
    Cammina per la pianura. Accanto a lui, a destra come a sinistra ma non sopra il nero sentiero, corrono bestie simili a lupi, ma con tante zampe che il loro movimento assomiglia a quello dei centopiedi. I loro corpi sono allungati all’inverosimile, il pelo si mischia e si interseca a duri segmenti di esoscheletro senza logica apparente. Molte delle zampe sono rivolte verso l’alto e si agitano inutilmente all’aria. Al posto della testa hanno un’unica protuberanza simile alla proboscide degli elefanti. Sbandano ora a destra ora a sinistra, cercano di tagliare la strada di Haiiro, di spaventarlo. Ma lui ha imparato: mantiene la rotta di fronte a sé, sul nero sentiero che essi non possono calcare.
    È solo nella pianura. In lontananza davanti a lui c’è una gigantesca porta d’argento collocata sul fianco di una montagna. È lì che il sentiero ha fine, è quello il varco per tornare al suo modo. Ma quanto è grande? Gli pare più alta di un grattacielo e si chiede come possa aprirla con le sue forze. Forse Nyarlathotep lo aiuterà? Ma mentre avanza se ne accorge: più si avvicina alla porta, più questa diventa piccola. Quando la raggiunge deve chinarsi per aprirla. Appoggia le gambe e le braccia sul nero sentiero per poter strisciare al suo interno.
    È finita. Sto per tornare a casa.
    Un’ombra, no, mille ombre oscurano l’occhio di Nyarlathotep sopra di lui. Ali scure volteggiano nel cielo, lo sovrastano. Esseri dai lunghi colli e dagli arti affusolati, le ali di cuoio come i pipistrelli, silenziose. Sono centinaia, forse migliaia. Girano la testa verso di lui e non hanno volto.
    Sotto i suoi piedi, ora che l’occhio di Nyarlathotep è coperto dalle ali oscure, il nero sentiero è svanito. Lupi-centopiedi corrono verso di lui, mostruosi alberi estendono i loro rami serpentiformi, rocce dai mille occhi lo osservano e roteano la lingua giallastra. In preda al terrore Haiiro avanza per attraversare la porta d’argento. Ma di fronte a sé ha solo la dura montagna. La porta d’argento è svanita.
     
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    La disperazione è un velo che lento si posa sulla pelle e permea tutto il suo corpo. Gli esseri alati oscurano l’occhio di Nyarlathotep; senza di esso non vi è sentiero, né porta d’argento per tornare a casa. “Non dovrai mai deviare dal sentiero. Sarebbe la tua fine”. Quelle erano state le parole dell’essere. Non dubita della loro veridicità.
    Le bestie dalle cento zampe si avvicinano veloci a lui, più indietro arrancano i lenti alberi-serpenti. Le rocce rimangono dove sono, disseminate sulla pianura, apparentemente incapaci di muoversi. Haiiro chiude gli occhi. Trova strano come, pur non credendo di poter salvarsi, non riesca ad accettare di arrendersi. Fino alla fine, lui combatterà.
    Non può richiamare i suoi sogni, non può richiamare la sua ombra. Non in quel luogo. Ma il suo corpo è lì e quello utilizzerà. Il Fighting Sleep. I muscoli si tendono, i sensi si acuiscono. Anche con gli occhi chiusi, percepisce lo zampettare forsennato dei lupi-centopiedi e il raspare della terra degli alberi-serpenti. Avverte una musica cadenzata risuonare chissà dove: il suono monotono di flauti lo sovrasta e lo fa tremare; cerca di non soffermarsi su di esso. Tende invece le orecchie verso gli esseri alati che coprono l’occhio di Nyarlathotep. Ma non avverte nulla: né il planare delle ali né un qualche verso. Ai suoi sensi quelle creature sono invisibili. Eppure proprio loro sono il suo bersaglio.
    Si gira e corre verso la montagna, si mette a scalare, alterna braccia e gambe in quella folle ascesa. Più su, sempre più su. Fin quando i suoi piedi sentono sotto di sé solo la pressione aguzza della cima. È allora che balza verso l’esterno, verso l’alto. Tende le braccia ad afferrare quanto non può percepire, quanto è a lui invisibile, senza sapere se siano lì o se si librano ben più in alto nel cielo.
    Le sue dita sfiorano una membrana. È molliccia, rugosa e viscida assieme. Inghiotte il disgusto e prende a risalire quel corpo filiforme. Dita aguzze, affilate, premono sulla sua carne, dipingono strisce di sangue come Kasumi traccia disegni con la matita sulla carta bianca. Ma lui continua a risalire su quel corpo innaturalmente lungo, su quella carne dalla consistenza disgustosa. Risale, fino a toccare il liscio ovale che è il volto. E da lì salta, afferra un altro di quegli esseri e di nuovo comincia la sua risalita.
    Presto l’intero branco è su di lui. I loro artigli straziano la sua carne, talvolta lo afferrano e cercano di gettarlo a terra. Lui si dibatte, con più disperazione che forza, ignora il dolore, continua la sua ascesa. La stessa consistenza dello stormo, che ha permesso loro di oscurare l’occhio di Nyarlathotep, permette ad Haiiro di avanzare e ostacola i loro tentativi di rigettarlo a terra.
    Infine, quando dopo l’ennesimo salto da uno dei grotteschi esseri le sue mani non si stringono intorno a un nuovo corpo, apre gli occhi. Su nell’alto cielo osserva il ferino occhio di Nyarlathotep nel suo indescrivibile colore. E l’occhio di Nyarlathotep torna a osservarlo, la protezione dell’essere si stende di nuovo su di lui. Gli esseri alati, con muta rabbia, scappano via.
    Haiiro cade, ma all’ultimo la caduta rallenta. Il nero sentiero è ai suoi piedi, la porta d’argento di fronte a sé. Le altre mostruosità costrette ad attendere oltre il sentiero. Si mette a quattro zampe e striscia per la porta aperta. La sua mente va all’unico luogo in cui vuole essere in quel momento. Tutto intorno a lui svanisce.
     
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    Sensi e pensieri non giungono in modo simultaneo. Quanto ha intorno viene registrato dalla sua retina, ma la mente è incapace di dargli un senso logico. Sedie, letto, scrivania, disegni e astucci. Quegli oggetti tanto ordinari gli paiono privi di significato, troppo normali per essere reali. Si alza con passi da ubriaco, si dirige verso il tavolo. Tocca una matita, la fa rigirare tra le sue dita, ne sente le scanalature.
    È la realtà… Quel pensiero è l’unico che riesce a formulare per molto tempo. Dopo quando ha visto, dopo quanto ha vissuto, il poggiare i suoi piedi nelle stabili strutture della Terra è abbastanza per appagarla. Solo quello conta: essere tornato al suo mondo. Dove si trovi in quel momento è una preoccupazione secondaria. Talmente tanto che gli ci vuole molto tempo prima di accorgersi che quella non è la sua stanza. Quella è la camera di Kasumi, il letto sfatto, i pennelli, matite e gomme sulla scrivani e disegni in ogni dove. Ma lei non c’è.
    I suoi occhi vanno alla finestra, in frantumi, pezzi di vetro che riflettono la luna bianca. Solo dopo, alzandosi, si posano su quello che per primo avrebbero dovuto vedere. L’uomo alto due metri, dalla pelle nera e gli occhi maligni.
    «Nyarlathotep. Perché sei ancora qui?»
    «Perché non dovrei esserci? Tu mi hai invitato. E ora hai invitato tutti loro.»
    Vi è una derisione in quelle parole, celata eppure manifesta. Ma Haiiro non ha tempo da perdere.
    «Dov’è Kasumi?»
    «È il mio ultimo dono per te. Un atto di compassione non dovuto. Celare quanto non sopporteresti di vedere.»
    Per un attimo crede di star sognando. Per un attimo tutto quanto lo circonda perde di senso.
    «Dov’è Kasumi?»
    «Tu hai aperto la porta e loro ti hanno seguito. Gli esseri degli altri reami. I servitori degli Altri Dei. Il sentiero si è aperto per loro come per te e hanno attraversato la soglia.»
    «Dov’è Kasumi?!»
    Con mani come artigli si getta contro la nera figura. Ma essa svanisce come nebbia. E di fronte a Haiiro si rivela lo spettacolo prima celato. Kasumi è in piedi, con le braccia protese verso il ragazzo. Le sue stesse viscere, estratte dal basso ventre, legate al soffitto e alle spalle, fanno sì che mantenga quella posizione. Gli occhi sono sotto la bocca; la testa è stata staccata e rimontata capovolta. Tra le mani è posato il suo stesso cuore, offerto ad Haiiro in una crudele irrisione. Sembra una di quelle macabre composizioni che a lei piacciono tanto.
    Haiiro non grida. Non si muove. Non fa nulla. Con l’immagine della ragazza impressa a fuoco nella sua retina, la sua mente scivola via in un luogo distante tanto dal mondo del sogno quanto da quello della realtà. Non si accorge della sua ombra risucchiata negli spazi siderali dove risuonano monotoni flauti.
    Fuori, oltre i vetri spaccati della finestra, le figure alate dei Magri Notturni si librano in lontananza. Nuovi orrori corrono per il mondo o si mimetizzano al suo interno. Da qualche parte Nyarlathotep ride.

    FINE
    per ora

     
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6 replies since 13/2/2020, 19:23   58 views
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