[What if?] Vita che viene, arte che va

One-shot in due parti

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    Quello che segue è il proseguo della mia What If, il cui episodio pilota e presentazione del primo personaggio alternativo è qui..

    H. N.

    La vita. Cosa c'è di più bello e commovente a questo mondo della vita? E cos'è più fragile? Guardate la farfalla che svolazza vicino a me, quasi a invitarmi a giocare. Guardate i suoi colori, il bronzo scuro su cui si staglia un occhio giallo, gemello dell'altra ala. Guardate quanta vita s'agita in lei a ogni battito d'ali. Mi attira, quella minuscola vita: ai miei occhi è più splendente della vita di molti esseri umani. Forse perché più breve, quindi più intensa. Come una fiamma che più forte brucia, più velocemente si consuma. Verso quella fiamma, quella farfalla, allungo la mia mano. E la farfalla, accettando il mio invito, ci si posa sopra. Sorrido, assaporo la sensazione delle sue zampette sulla mia pelle, e poi tra le mie due dita la stringo. La farfalla si dibatte, disperata, cerca di scappare, di volare via. Ma le mie dita la tengono stretta. La guardo estasiata: quanta forza, quanta vita, emerge nella disperazione, nel pericolo mortale! Quella farfalla non è mai stata tanto viva che in quel momento, mentre sta per morire. E così la schiaccio, con affetto. L'energia vitale della farfalla si libra dal suo corpo: brilla di un colore mozzafiato, un arancione che si tinge di rosso, come in un tramonto. Prima che si disperda nell'etere, la richiamo a me, la rendo mia.

    Una ragazza nel tavolo vicino mi ha visto, mi guarda disgustata. Magari si chiede perché l'ho fatto. Cattiveria, penserà. Si sbaglia. Amore sarebbe una risposta più adeguata. Amore verso la vita e desiderio di non sprecarla. Troppe persone sprecano la vita in azioni inutili, in parole superflue, in gesti eccedenti. Non se ne rendono conto. Distolgono lo sguardo dalla morte e quindi non possono capire il valore della vita. Solo chi è consapevole della morte può godere della vita. Chi non pensa alla morte – la sua morte – tanto meglio avrebbe fatto a non nascere neppure. Anche per questo ho ucciso la farfalla: per ricordarmi di quanto è fragile la vita – tutte le vite, compresa la mia.
    E voglio farle un regalo, a quella ragazza. Perché non sprechi i suoi giorni, perché si ricordi della preziosità della vita (la vicinanza della morte). Tengo uno scorpione in tasca: il suo veleno è mortale, ma lo scorpione è morto. Prendo un po' della mia energia vitale (è di un indaco venato di fili d'oro) e l'inserisco nello scorpione. Sento che comincia ad agitarsi in tasca. Anch'io devo stare attento, o potrebbe pungermi. Il rischio mi fa stare bene, mi sento vivo. Mi alzo e, mentre nessuno guarda, lo lascio cadere sul pavimento. Chissà chi colpirà: un vecchio o un giovane, una donna o un uomo. Forse ne ucciderà due, tre, quattro, prima di morire a sua volta, forse nessuno. Forse ucciderà la ragazza a cui volevo mostrare la fragilità della vita, forse si ritorcerà contro di me che gli ho dato vita. C'è sempre della casualità nella vita: sopprimerla è inutile, si può solo accettare. Ho appena pagato il mio conto al bancone, quando sento un grido. Non mi giro e proseguo. Ho un appuntamento, non posso rischiare di arrivare tardi.

    Lo sto aspettando, sento che è vicino. Comincio a vedere cose che non hanno senso di esistere. Immagini, suoni, odori; non so se sono reali o meno. Mi chiedo se è opera sua, di chi devo incontrare, o sono io che sono impazzito. Mi vanno bene entrambe le possibilità...
    E poi arriva, è lui, chi sto aspettando. Come faccio a riconoscerlo? È la sua vita, un miscuglio di violetta e grigio scuro che si agita malsano su e giù per il suo corpo e fuori, così debole che in un istante si potrebbe estinguere, così forte che potrebbe inghiottire l'intero mondo. E mentre lo guardo sento i miei piedi venire trapassati da qualcosa di acuminato, erba o coltelli. Gioisco mentre il mio corpo soffre e percepisco il richiamo forte della mia vita. Lui si avvicina, mi parla. Poche semplici parole, nessuna introduzione.

    «Tu sei uno di noi. Noi possiamo capirti, gli altri no. Unisciti a noi.»

    Apprezzo quelle parole, non per il loro significato, ma per la loro incisività. Nelle vuote parole la vita si attarda, si disperde, viene sprecata. Solo nelle azioni concrete e nelle brevi sentenze si conserva vitale.

    «Non so se mi potete capire. Ma so che mi potete far sentire vivo.»

    Lo so, loro possono farmi sentire la vita. La sua precarietà, la sua casualità, la sua distruttività. L'erba che mi trapassava le gambe si è seccata, è diventata gialla e poi è svanita. L'asfalto è tinto del rosso del mio sangue, liquido di vita. Sono pronto a entrare nella classe -13, insieme a questo ragazzo. Non sprecherò fiato – animus, vita – in discorsi inutili, ma almeno mi posso presentare.

    «Sono dei vostri. Mi chiamo Hiroshi.»

    Annuisce senza sorpresa. Forse sapeva già il mio nome, forse sapeva già che mi sarei unito a loro. Sento il mio corpo stirarsi, vedo il mondo che si deforma, si allunga e si accorcia, fantasmi di persone che non sono si frammentano a persone reali, provo emozioni che non sono mie. Resto estasiato dalla potenza, casualità e pervasività del suo potere.

    «Benvenuto tra noi. Io sono Haiiro.»
     
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    K. N.

    Chissà come sta? Non lo vedo da anni, mio fratello. Devo dire di essere ansiosa di incontrarlo. E anche spaventata. Non sarei onesta con me se non lo dicessi. Non so come è diventato, non so quanto è cambiato. L'istinto mi dice che non è migliorato e io mi fido del mio istinto, della mia sensibilità. Ma va bene così. Io sono qui proprio per aiutarlo.

    Giro per la città, osservandola: gli edifici, le macchine, le persone. Non perdo d'occhio il mio obiettivo, trovare mio fratello, ma non mi faccio accecare da quello, perdendo di vista il resto. Il resto, ossia tutto quello che attira la mia attenzione: un edificio diverso dagli altri, un piccione che atterra a beccare i resti di qualcosa – forse un cracker forse un panino – una coppia che cammina lasciando lo spazio di pochi centimetri tra le reciproche spalle. A volte non capisco perché certi particolari attirino la mia attenzione, ma succede. Come adesso: mi fermo a osservare l'angolo di un negozio, lo trovo curioso senza sapere perché. Sarà il reticolato dei mattoni diverso da quello degli altri edifici? Noto che è diverso, ma anche gli altri sono diversi tra loro e non mi hanno attirato allo stesso modo. Ma ormai ho superato l'angolo e la mia attenzione si sposta su altro. Proseguo così, facendomi guidare dal mio gusto. A volte senza accorgermene la mia mano si mette a disegnare per aria un dettaglio che mi è rimasto impresso. Non so dov'è mio fratello, so solo che è qui da qualche parte in città, tanto vale osservarla, no? Tanto sono sicuro che mio fratello attirerà il mio occhio.
    Mi fermo, d'improvviso. La gente di fronte a me... ha qualcosa di strano. Vedo le loro facce girarsi a scatti, i loro occhi stralunati. Quasi sotto shock. È successo qualcosa qui.

    Tirò fuori un foglio dalla borsa, la matita l'ho in tasca. Svelta dipingo, abbandonandomi all'estro, alle impressioni estemporanee. Esce fuori un paesaggio surreale, in cui le persone che ho davanti a me sono immerse, anzi, sommerse, tanto da non riuscire a scapparne. Non so cos'è successo, ma so cosa fare, più o meno. Con la matita traccio altre linee che si affiancano e si sovrappongono a quel paesaggio così caotico e insensato, congiungendo, separando, costruendo. Alla fine sul reticolato straniante di prima si è venuto a formare un paesaggio normale, consueto, fatto di macchine ed edifici. Le persone al suo interno non ne vengono più sopraffatte.
    Alzo gli occhi. Di fronte a me la gente sembra più calma, anche se rimane del nervosismo nei loro movimenti. Del resto chiedere al mio Art Therapy che annullasse tutta la loro agitazione usando un disegno comune e in cui non si sono neppure rispecchiate, sarebbe stato troppo.

    Metto in borsa il disegno, dopo averlo accuratamente piegato, poi mi avvicino e faccio delle domande. Chiedo cosa è successo, le risposte sono molteplici e varie. Ma per usare un solo nome, potrei dire “allucinazioni”. Tutti dicono di aver percepito qualcosa che non doveva esserci. Poi si mettono a parlare di colpi di sole, degli effetti della stanchezza, di un attacco tossico... tutto, pur di dimostrare a loro stessi che quanto è loro accaduto sia “normale”, spiegabile attraverso la loro griglia di valutazione e conoscenza del mondo.
    Ma non è normale, lo so, e so che non è solo un'allucinazione. Non so se è opera di mio fratello, ma sono sicura che è collegata a lui. Parto di nuovo, nella direzione in cui le persone mi hanno detto di aver sentito andare le “allucinazioni”, a passo svelto. E alla fine arrivo.
    Due persone. Quando le vedo sento un brivido. L'istinto mi dice di non andare, le mie gambe tremano. Io avanzo.

    «Hiroshi!»

    Chiamo forte il nome di mio fratello. Mio fratello, che un giorno di dieci anni fa per farmi divertire ha dato la vita a un suo pupazzo. Mio fratello, che dopo aver visto il pupazzo morire è come impazzito. Mio fratello, che la notte prima di fuggire di casa ancora bambino, mi ha fatto un lungo e sconclusionato discorso sull'importanza della vita e la sua futilità. Mio fratello che non vedo da quella volta, dieci anni fa. Mio fratello, che si volta e sorride come se nulla fosse.

    «Ehilà Kasumi! È da tanto che non ci vediamo.»

    Sorrido anch'io, un foglio bianco nella mano, una matita nell'altra.

    «Sono venuto a salvarti, fratello.»

    Vedo anche l'altro ragazzo girarsi e guardarmi con occhi stanchi e allucinati, due voragini su un mondo che forse non voglio conoscere, due specchi che restituiscono un'immagine distorta di me. Un altro brivido mi attraversa il corpo. Sento il mondo girarmi intorno.



    I tre personaggi - Haiiro, Hiroshi e Kasumi - che in un altro mondo erano legati tra loro, si sono incontrati anche in questo... ma sono così diversi da quello che erano! La loro presentazione è finita, ma la loro storia è appena iniziata e continuerà... ve lo prometto :misogi:

    Ma questa, per ora, è la FINE

     
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    Well, put a saddle on my back and call me Butt Stallion, that was marvelous!

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