[CONCLUSA][What if?] Lo schifo ha il sapore della bile

Narrazione privata

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    CITAZIONE
    Terzo capitolo della mia serie What if? (per chi se li fosse persi ecco il primo capitolo e il secondo capitolo) in cui riprendo i miei pg, ma con caratteri, poteri e storia diversi. Cambiati i personaggi cambiano anche i codici per indicare il loro parlato, che diventa il seguente:
    Parlato Kasumi
    Parlato Haiiro
    Parlato Hiroshi

    Kasumi Natsui


    Il ragazzo che è accanto a mio fratello Hiroshi si gira, i nostri sguardi si incrociano. I suoi occhi sono socchiusi, come se un velo li ricoprisse, la sua espressione è insieme allucinata e ottusa. Per la verità, è la più ottusa che abbia avuto modo di osservare in un essere umano: direi che lascia trapelare la stessa vivacità e intelligenza ravvisabile sul viso di una mucca intenta a brucare l’erba e a scostare le mosce dal suo corpo con pigri movimenti della propria coda. Quanto vorrei che quel ragazzo fosse solo un povero idiota con cui mio fratello sta parlando. Quanto vorrei non scorgere ciò che sta dietro la sua espressione. Ma lo vedo: è una mente che non comprende sé stessa né ciò che la circonda. È un brulicare di emozioni, pensieri e idee che si accavallano l’una sopra l’altra e si aggrovigliano tra loro. È una tempesta all’interno di un bicchiere d’acqua, destinata a traboccare e inondare ogni cosa vicino a sé.
    E questo è ciò che succede: mentre ci guardiamo sento il mondo girare e poi vengo investita da una sensazione violenta. Provo un fremito, un brivido per tutto il corpo e un intenso calore al basso ventre di cui non capisco la natura. Mi sento la testa leggera e assente, in preda di delirio o di febbre o di frenesia. Attorno a me è come se tutto il paesaggio svanisse, pur restando esattamente dov’è. Sono io che non riesco a vederlo: tutto quello che vedo è un’immagine, l’immagine di me stessa, o meglio di quella che potrebbe essere una mia caricatura. Perché è un mio ritratto approssimativo, impreciso, pieno di difetti e dettagli mancanti, ma in cui allo stesso tempo appaio più bella e sensuale di quanto io sia mai stata.
    L’istante successivo l’allucinazione – se così si può chiamare – svanisce e io torno in me. Il tutto è durato il tempo di uno scambio di sguardi, eppure mi sembra sia passata un’eternità. Ciò che è successo dovrebbe lasciarmi confusa, smarrita. Invece sono del tutto lucida. E capisco tre cose.

    La prima è che le sensazioni avvertite non sono mie, ma di quel ragazzo. La seconda che il suo potere, qualsiasi sia, gli permette di proiettare sugli altri, e forse sulla realtà stessa, ciò che prova. La terza è la natura delle sensazioni, no, dell’emozione che il ragazzo ha provato guardandomi e che mi ha involontariamente trasmesso. E con la terza ne viene una quarta: capisco che lo schifo ha il sapore della bile e del cibo decomposto dai succhi gastrici che inverte il suo percorso e ritorna alla gola. Questo provo al solo pensiero che un essere simile – un minus – possa nutrire quell’emozione verso di me. Schifo puro, che si concretizza nel riflusso gastrico di ciò che ho ingerito e che trattengo a malapena. Per la prima volta capisco che l’espressione “mi fai vomitare” non è pura metafora.
    Allo stesso tempo, ho avvertito anche la sincerità della sua emozione. Ho avvertito la sua emozione come se fosse mia. Come posso respingere un’emozione che, pure per un solo attimo, mi è appartenuta? Un’emozione così grande e pura, per quanto possa essere puro un sentimento così carnale. Non posso respingerlo, perché so quanto è autentico. Non posso accettarlo, perché mi disgusta.
    Amore, questo è ciò che prova.

    Il ragazzo si avvicina, a piccoli passi esitanti. Tra me e lui balenano immagini cangianti ed effimere. Compaiono e svaniscono come fantasmi. Le guardo appena; il mio sguardo e la mia attenzione sono tutte puntate agli occhi suoi, come i suoi ai miei (pur nel suo velato modo). I miei pensieri sono come congelati. Non riesco a muovermi. Non riesco a scappare. È di fronte a me. Vedo come al rallentatore la sua bocca aprirsi e parlarmi.
    «Ti amo. Vorresti metterti con me?»
    Sento di nuovo in bocca il sapore acido del cibo mezzo sciolto dai succhi gastrici. Sto per vomitare, il mio animo sta per spezzarsi; non c’è distinzione tra le due cose.
    Guardo in faccia il ragazzo che mi è di fronte. Il ragazzo che mi disgusta, il ragazzo che mi ama, il ragazzo di cui non so neppure il nome. Lo guardo e cerco in me qualcosa che possa resistere ai sentimenti che provo e mi possa cavare dalla risposta che devo ma non posso dare. E sento un desiderio. Un desiderio refrattario al disgusto che provo. Un desiderio che non è buono né cattivo, ma autentico e anormale.
    Voglio disegnare. Voglio disegnare questo minus che ho di fronte, questo coacervo di caos inconsapevole. Voglio fissare su carta tutte le impressioni che è stato in grado di trasmettermi. Stringo forte la matita nella mia mano. Non per trovare coraggio, ma per evitare che senza obbedire ai miei comandi schizzi sulla pagina e si metta di sua posta a disegnare. Non mi interessa di quello che sarà di me o del mondo, voglio solo disegnarlo. Non mi interessa se mi provoca disgusto, anzi, proprio per lo schifo che riesce a installare nel mio animo, vale la pena di disegnarlo.
    «Mi fai schifo. Posso fare un tuo disegno?»
    Il ragazzo ritrae la faccia come se gli avessi dato uno schiaffo. La mia dichiarazione di disgusto deve averlo colpito, la sua espressione è mortificata. Non sembra più un pericoloso minus, ma solo un ragazzo alla sua prima cotta che è appena stato rifiutato. Quasi crolla su di sé. Forse dovrei sentirmi in colpa per averlo fatto sentire così. Soprattutto quando ricordo ancora l'emozione provata poco prima. Ma il pensiero del disegno mi pervade, tutto quello a cui riesco a pensare è come rendere al meglio la sua espressione su carta. Voglio disegnarlo, voglio disegnarlo, voglio disegnarlo.
    Quando lui, muto e mogio, annuisce con un gesto del capo alla mia richiesta sento le mie labbra distendersi in un sorriso trionfante. La mia mano si precipita a tracciare le linee sul foglio bianco, la mia attenzione è tutta riposta sul disegno e sul ragazzo che ho di fronte.
    Non noto mio fratello Hiroshi avvicinarsi, un coltello in mano e un’espressione terribile in faccia.


    Edited by Tabris_17 - 14/4/2018, 15:17
     
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    Hiroshi Natsui


    No, no, no, NO, NO! Non doveva andare così! Ma perché… perché le persone devono sempre coprirsi, farsi schermo, perdersi dietro inutili atti superficiali! Era perfetto. L’incontro con mia sorella Kasumi, il desiderio sessuale di Haiiro verso di lei, la sua richiesta… Non c’è nulla di così intenso nell’universo come il desiderio di vita (desiderio sessuale), tranne quello di morte. E lei cosa fa di fronte a una simile richiesta? Propone di fargli un disegno?! Stupida! Inutile! Lo sapevo… lo dovevo sapere, da dieci anni fa, da quanto non mi ha seguito, non mi ha capito. Non dovevo aspettarmi nulla da Kasumi. Lei è come tutti gli altri, si perde nelle mille frivolezze in cui la vita si dipana e scema; nei suoi disegni, attraverso cui crede di poter capire la realtà. Ma la realtà non si capisce, la sia agisce oppure la si subisce. Così è la vita. La vita è agire, muoversi, amare, uccidere. Nei libri, nei disegni, nelle chiacchiere, la vita perde valore, si aggroviglia su se stessa, passa senza accorgersi. Ma lei non lo capirà. Non a parole, almeno.
    Il coltello, il mio fido coltello che mi ha accompagnato per lunga parte della mia vita, da che una settimana fa l’ho rubato a un mercatino dell’usato. Lo impugno, impugno il mio coltello. Non più disegni, non più parole, non più pensieri. Azione.

    Cammino verso di loro. Coltello alla mano. Kasumi mi vede, senza vedermi. Presa nel disegno, io prendo Haiiro. Lama penetra nel suo fianco, ne assorbo la vita. Kasumi grida. Non guarda più il disegno. Sorrido. Affondo. La manco.
    Parole trafelate. Non le sento. Non è più tempo delle parole. È tempo di vivere (uccidere). La parte di vita di Haiiro che ho assorbito. Diventa forza e velocità per il mio braccio. Stavolta non la manco. L’ho presa alla testa. La testa? Mi fermo. Quasi contro la mia volontà parole escono dalla mia bocca.
    «La testa. Le persone quando vengono attaccate al viso cercando di scansarsi. E tu ci hai provato. Inoltre, le persone si riparano il viso con le mani. È istinto. Ma tu non l’hai fatto. Perché?»
    Mi guarda. Sorride. Sfrontata. Risoluta. Indecifrabile (ma le persone non si decifrano, non si comprendono, quindi perché penso a questo?)
    «Che razza di domanda Hiroshi… come faccio a fare un disegno a questo ragazzo, se mi trafiggi la mano? Tuttavia non dimenticarti che chi voglio più dipingere sei tu.»
    Lo dice indicandomi con la mano destra, in cui impugna la matita. Sulla sinistra tiene ancora il foglio. Sulla fronte ha un taglio profondo. Credo di averle sfiorato la scatola cranica; in pratica si è salvata per un soffio. Ma nonostante il rischio mortale lei non si è protetta con le mani, né ha lasciato carta e matita.
    Mi mordo le labbra fino a far uscire sangue. Troppo poco. Affondo il coltello nel mio stesso braccio. Ora va un po’ meglio.
    «Cosa stai…»
    «Ricordo a me stesso quello che tu hai voluto dimenticare. Che la vita è carne e sangue, non fogli e inchiostro. Ma cosa credi di poter dimostrare, facendomi un disegno?»
    Regge senza problemi i miei occhi e io mi scopro, con disgusto, curioso di sapere la sua risposta.
    «Voglio salvarti.»
    All’inizio la guardo e basta senza capire. Ci vuole un po’ perché io mi avvicini a quella che può essere la comprensione delle sue parole. Quando ci arrivo, sento il fiato venire meno. La bocca non riesce a respirare. Sto ridendo a crepapelle. Che scema! Che scema!
    «Non… non sottovalutare la mia Art Therapy! Attraverso questa anormalità io posso…»
    Non riesco a fermarmi. Le risate escono incontrollate dalla mia bocca. Tolgo il coltello dal mio braccio, ma neppure il dolore e il sangue che accompagnano la sua fuoriuscita dalla mia carne riescono a farmi smettere.
    All’improvviso non ho più niente di cui ridere. Cosa c’è da ridere quando l’intero mondo è dolore, tristezza e rabbia? Rabbia, soprattutto, e delusione. Delusione verso Kasumi e rabbia verso di me – verso un altro che pare proprio me e a cui voglio far male, nmiliarlo – me che nel corso di incoerenti narrazioni vengo battuto, buttato a terra, pestato, accoltellato. Non so quanto si realizza, ma sento l’asfalto sotto le mie braccia e le ginocchia, le costole incrinate.
    Senza essere sorpreso, giro la testa verso Haiiro, il mio compagno di tre minuti fa, che ho accoltellato un minuto fa. Si tiene la mano sul fianco da cui esce sangue, ma il dolore e l’adrenalina non lo tengono così cosciente come speravo.
    «Ehi ehi ehi… Hiroshi, non avevi detto che eravamo compagni?! L’avevi detto, sono sicuro che l’avevi detto, ne sono quasi certo, mi sembra proprio che lo hai detto, mi pare di ricordare che l’hai detto, mi sono immaginato che l’hai detto, ma l’hai detto sul serio o l’ho solo sognato io? In ogni caso non ti perdono.
    E te, ragazza, non avevi detto che volevi farmi un disegno?! E allora perché adesso dici che vuoi fare un disegno a lui più che a me?! Lo sapevo, siete tutti bugiardi, bugiardi, bugiardi…»

    Fa male dappertutto. Ah, quanto mi sento vivo.
    «Kasumi dai… fammi vedere come pensi di “salvarlo” con i tuoi disegni.»
    Se non riesco più a ridere, posso almeno sorridere.
     
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    Haiiro Kugatsu

    «Bugiardi.» Fa male. «Traditori.» Fa male! «Mendicati… no, mendati … no, mend… mendaci. Siete tutti mendaci.» Fa troppo male! «Dopo tutto quel che ho fatto per voi…» Ma mi consolo, perché so che anche voi sentite questo male.
    «Non ho mentito! Ho promesso di farti un disegno e lo farò! E ho un nome, Kasumi!» La guardo, con rabbia, guardo il suo bel volto pallido, ma con quel rigolo di sangue che non fa che esaltarne la carnagione, gli occhi verdi che mi guardano diretti… ah, quante persone sono che mi guardano così negli occhi? A parte quelli della sezione -13 nessuno lo fa, ma lei… Non va bene, ho distolto lo sguardo, non riesco a fissarla, non riesco a essere arrabbiato con lei. I miei precedenti pensieri svaniscono. Riesco solo a pensare a quanto sarebbe bello stare insieme a lei, distesi su un verde prato… sento l’erba sfiorare i miei piedi. So che la sente anche lei, o quantomeno sento che la sente anche lei… Kasumi, non lei.
    «…Haiiro.»
    «Cosa?»
    Sento le mie guance divampare. Perché ho parlato a voce troppo bassa? Sono stupido? Perché lei non mi ha sentito? È forse sorda? O l’ha fatto per dispetto? Ripeto. A voce più alta.
    «Haiiro. È il mio nome.» Le lancio un’occhiata. Vedo che si è messa a disegnare. A disegnare me. Non Hiroshi. Me. Questo mi rende felice. Però sono dubbioso. «Qual è il tuo rapporto con Hiroshi?»
    «È mia sorella» risponde lui. «La mia inutile sorella.»
    «Ah!» È la sorella. Sono fratelli. Quindi per questo lo vuole disegnare. Non preferisce lui a me, semplicemente lui è suo fratello. Dunque è anche mio fratello.
    «Ti aiuto ad alzarti, fratello.»
    «Grazie» fa lui «la ferita al fianco come va?»
    «Fa così male che vorrei squartare dall’interno chi me l’ha fatta. Ma sei mio fratello e un compagno della sezione -13, quindi non ci pensare.»
    Annuisce. Si vede che è uno di noi, capisce al volo. Per noi della sezione -13 infliggerci simili ferite è normali, un segno di affetto e comune appartenenza. Sono contento di averlo reclutato. Contento e orgoglioso.
    «Sai che lei è un’anormale e che il suo potere è collegato al disegno?»
    «Lei?» Dopo qualche istante capisco che sta parlando di Kasumi. Lei, non Kasumi. No, lei, quindi Kasumi. Ma certo. È un’anormale. Un nemico quindi. Un amore impossibile. Saperlo fa più male della coltellata che lui mi ha dato. Eppure non posso perdere la speranza. Non ora che ho trovato una ragazza che mi fa battere forte il cuore. Anche se il nostro amore è più impossibile di quello di Romeo e Giulietta che dall’alto di torri ripiene di liane si dichiarano amore…
    «Non modificare il terreno, per favore. Già è difficile disegnare con il sangue sugli occhi…»
    Annuisco e ne guardo rapido le dita che si muovono sul foglio. Quel movimento mi calma. Di solito i miei pensieri vanno in mille direzioni diverse, ma se guardo quelle dita ecco che tutto il resto svanisce, rimane solo quel movimento e null’altro resta. Non devo pensare ad altro. Per questo sento un impeto di rabbia, mentre un pezzo di strada vicina si frantuma, quando termina quel movimento. Ma lei sorride e quel sorriso è bello, quando alza lo sguardo e dice «è finito» ed è ancora più bella la sua faccia quando a una seconda occhiata del suo disegno assume un’espressione sgomenta.
    «Cos’è questo…?» Quel mormorio inorridito è musica per le mie orecchie.
     
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    Kasumi Natsui

    Guardo il mio disegno, lo guardo e riguardo, alla ricerca di qualcosa, un dettaglio, un particolare, che possa aiutarmi a sgrovigliarlo. Non lo trovo. È uno dei migliori disegni che abbia mai fatto, eppure mi mostra come nessun altro disegno tutta l'impotenza del mio Art Therapy.
    Questo potere mi consente di imprimere in un disegno le caratteristiche di una persona: il suo carattere, il suo vissuto, le sue paure e ossessioni e così via. Modificando il disegno posso agire anche sulla persona, almeno a livello psicologico. È una sorta di suggestione in fondo. Non posso cancellare e rimodificare a mio parere una persona. Ma posso aiutarla. L’ho sempre fatto. Ho sempre trovato un dettaglio, un particolare, che potessi modificare in modo da aiutare quella persona. Per superare un trauma, per vincere un’emozione – timidezza, rabbia, o mille altre – per venire a patti con se stessi. A volte il mio intervento è stato meno influente di quanto volessi. A volte ha avuto un effetto solo temporaneo. Ma per quanto poco, per quanto breve, sono sempre riuscito a intervenire. Ma ora… mi è impossibile agire per questo ragazzo… per Haiiro.
    «Allora? Che hai, Kasumi? È riuscito questo disegno che doveva “salvarci”?»
    Insopportabile. Può essere mio fratello, ma in questo momento lo odio. Lo odio, perché è riuscito, chissà come, a capire quel che è avvenuto.
    Ma non posso dargliela vinta.
    «Un altro… voglio fare un altro disegno. Stavolta di te, Hiroshi.»
    «Ovviamente dopo farò vedere a te il tuo disegno, Haiiro.»
    Non nascondo che la mia voce trema un po’ mentre dico queste parole. Ho paura di questo minus e di come potrebbe reagire. Anzi, ho paura di tutti e due i minus. La facilità con cui prima hanno attaccato me e loro stessi, per poi smettere subito dopo mi spaventa. È folle, troppo folle perché possa comprenderlo.
    «Certo, perché no? Continua pure coi tuoi disegni, continua pure a illuderti che possano cambiare qualcosa. Anche se non so quanto questa illusione possa durare.»
    Odio anche questa sua voce beffarda. L’altro minus, Haiiro, non dice nulla, ma sento il suo disappunto sulla pelle, insieme a mille immagini che mi turbinano di fronte agli occhi – le mille reazioni che fantastica di fare e non farà – e mille voci alle mie orecchie – le frasi che immagina di dire e non dirà.
    Con difficoltà distolgo l’attenzione da quelle impressioni e punto gli occhi su Hiroshi. Su di lui, sul suo profilo beffardo e rilassato, la sua aggressiva noncuranza, una rilassatezza che l’istante successivo si potrebbe tradurre in un assalto. “Splendido”. Per quanto una parte di me disprezzi questo mio pensiero, esso cattura la mia mente e guida le mie dita. Per quanto il mio buonsenso urti contro l’atteggiamento di questi minus, la mia sensibilità artistica ne è catturata e affascinata, quasi sedotta. Il suo ritratto finisce in fretta, in meno della metà del tempo che mi è servito per Haiiro.
    E il risultato, per quanto diverso, è uguale. Lo fisso con un mezzo sorriso angosciato. Hiroshi aveva ragione. Non li posso salvare, non con il mio Art Therapy. Anzi, non credo che nessuno possa salvarli.
    «Allora, mia dolce sorella? Hai finito con il tuo disegno?»
    Non riuscirei a rispondere a voce, quindi annuisco. A passi tremanti mi avvicino a loro e porgo i rispettivi disegni.
    Il disegno di Haiiro è un incubo di linee sovrapposte e aggrovigliate tra loro. Non c’è una distinzione tra il paesaggio e il minus, le medesime linee danno forma a entrambi. Così il braccio di Haiiro si estende fino a diventare il ramo di un albero, così il suo piede, nel groviglio di linee, è indistinguibile dal pavimento. Il disegno, per l’accastellarsi di molteplici linee si presenta scuro e intricato, caotico oltre ogni dire.
    Il disegno di Hiroshi pare essere il suo contrario. Il profilo di mio fratello è tracciato con una sola linea, insieme labile e decisa. Il paesaggio in cui è collegato è simile, ma ancora più evanescente. Non ci sono linee superflue, non ci sono ombre, tutto è chiaro e alla luce, quasi spoglio.
    Ho capito più o meno cosa significano i due disegni. Quello di Haiiro mostra il suo caos, la sua confusione mentale, ma anche la natura del suo potere che si estende fuori di lui ad eliminare la distinzione tra realtà e fantasia, tra interiorità e mondo esteriore. Quello di Hiroshi invece è il risultato della sua filosofia di vita: lui ritiene superfluo ogni cosa – arte, parole, riflessioni – all’infuori dell’agire. Una linea di condotta estremamente chiara, estremamente semplice, che elimina la possibilità di ogni ombra o sovrappiù: rimane solo lui e l’ambiente in cui si muove. Labili entrambi, perché labile è la vita.
    Se c’è qualcosa che accomuna questi disegni così diametralmente opposti è che in entrambi è impossibile mettere mano. Haiiro è una matassa inestricabile, in cui è impossibile mettere mano o far chiarezza. Hiroshi invece una semplicità che rifiuta ogni ulteriore inserimento, ogni linea ulteriore che traccerei.
    Fino a quando continuerò a sbagliarmi verso i minus? Prima ne ho sottovalutato la pericolosità, la follia, l'incoerenza. E ora, pensando di poterli salvare con i miei disegni, ho sottovalutato la loro essenza più propria. No, forse non è questione di sottovalutare, ho proprio sbagliato nel valutarli, nel comprenderli. Pensavo che come le persone normali, il loro carattere distorto dipendesse da qualche avvenimento doloroso del passato che io potevo alleviare. Ma non è così: è la loro essenza, il loro carattere di base a renderli tali. Io non posso intervenire per cambiarlo.
    Haiiro fissa e rifissa il suo disegno, spostandolo e spostandosi per vederlo da una nuova prospettiva. Hiroshi invece ha gettato solo uno sguardo al suo, prima di mettersi a far rigirare il coltello tra le proprie mani, sporche di sangue.
    «Beh, allora? Che vuoi fare, sorella?»
    Già, cosa voglio fare? Ho fallito in tutto e per tutto. Non ho salvato mio fratello, ho sperimentato in prima persona l’orrore dei minus e l’inadeguatezza del mio Art Therapy su di loro. E mi sono anche fatto quasi ammazzare, come il dolore continuo alla fronte mi ricorda.
    Metto in borsa i due disegni – Haiiro pare deluso – e mi allontano.
    «Cosa voglio fare… Non lo so. Ma non è l’ultima volta che ci vediamo, Hiroshi.»
    Mi chiedo se è vero. Una parte di me vorrebbe non lo fosse. Dietro di me sento la voce lamentosa di Haiiro che chiede «E io? Ci rivedremo?»
    Ho paura a rispondergli, ma ho anche paura a stare in silenzio. Mi lascio sfuggire un «forse» incerto; la sua delusione è una stilla al mio cuore, che dilania dall’interno. È terribile sapere che è stato il mio atteggiamento incerto e freddo a provocare questa sensazione.
    Hiroshi invece non dice nulla. Provando un codardo sollievo per il suo silenzio, mi dirigo lontano. Lontano da quei minus, lontano dal loro distorto e impossibile carattere. Mi dirigo verso l’istituto Hakoniwa. Quella persona mi attende.
     
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    Hiroshi Natsui

    «La lasci andare via, senpai?»
    All’inizio non risponde, continuando a camminare con quella sua aria da sonnambulo e mormorando qualche parola tra sé. Notando che continuo a fissarlo, prima si guarda indietro, poi punta il dito verso se stesso.
    «Dici a me?»
    «Sì.»
    «Perché mi chiami senpai, fratello? Tu sei più vecchio di me.»
    «Sei nella sezione -13 da prima di me, quindi in questo aspetto sei il mio senpai. Comunque, lasci andare via così Kasumi?»
    «Uhm… dici che avrei dovuto provare a farle la corte in modo più deciso? A starle più appresso? Ma poi avrebbe pensato che fossi un tipo appiccicoso e non si sarebbe più innamorata di me.»
    «No, dico che è un anormale, un nemico. Non la dovresti uccidere?»
    «Ehi ehi, noi non uccidiamo così a caso.» Mi guarda con disapprovazione «Lo facciamo solo quando ne abbiamo voglia. E io non voglio ucciderla. La amo. Un morto mica si può amare, ti pare?»
    Ha senso.
    «Piuttosto… ti devo portare da una persona. Una persona fantastica. Il nostro capo. Te lo devo presentare. Ti piacerà. Piace a tutti noi.»
    L’immagine di quel loro “capo” mi balena nella testa e mi si presenta davanti. In modo naturale, immediato, gli stringo la mano. Afferro il nulla e quella fantasia, quell’immagine fluttuante svanisce.
    «Che aspettiamo allora? Andiamo.»

    Detto fatto. Haiiro mi portò in quella che doveva essere una scuola – come recitava un’insegna penzolante – e ora è solo un ammasso scomposto di mattoni. Sopra uno di questi ammassi vedo la persona di cui Haiiro mi ha parlato. Indossa una divisa nera e ha i capelli dello stesso colore, forse con una sfumatura blu in più. Da qui è difficile dirlo, ma non sembra sia molto alto, forse sarà dell’altezza di Haiiro. Mentre l’osservo abbassa il fumetto che tiene in mano – Shonen Jump – mi guarda e sorride.
    «”Tu devi essere il nuovo compagno minus. Sono contento che hai deciso di entrare nella sezione -13. Ma vedo che siete feriti.”» La sua faccia diventa una maschera di sorpresa, indignazione e rabbia. Eppure non sembra esprimere realmente nessuna di queste tre emozioni.
    «”Chi ha ferito i miei compagni minus?! Come capo della sezione -13 non posso lasciare impunito un simile atto! Gli farò provare un dolore che non dimenticherà per tutta la sua vita! Su, ditemi chi è stato.”»
    Senza esitare alzo il dito a indicare la persona che mi sta accanto. Con la coda dell’occhio vedo che Haiiro ha fatto lo stesso, indicandomi. Quella persona sorride, di quel suo sorriso così vuoto e imperturbabile. Il secondo dopo sento il dolore penetrare in tutto il mio essere, allo stesso modo in cui le viti penetrano la mia carne. Urlo e il mio urlo è compagno di quello di Haiiro, infilzato allo stesso modo al mio fianco. La persona che ci ha fatto questo non urla, ma anche lui ha il corpo trapassato da viti.
    «”Bene, ho punito la persona che vi ha ferito, e me stesso per avervi ferito. Ora che siamo tutti pari, possiamo passare al prossimo argomento.”»
    Il dolore è scomparso. Le viti sono scomparse. Mi alzo guardando intorno incredulo, un sorriso che non riesco a togliere dal visto. Già il potere di Haiiro mi aveva colpito, ma questo… questo è del tutto su un altro livello!
    «”Intanto mi presento. Sono Misogi Kumagawa, leader della sezione -13.”»
    «Hiroshi Natsui. Da ora membro della sezione -13.»
    Annuisce, con quella sua espressione vacua e innaturale, quasi una presa in giro, una maschera parodistica delle espressioni di noi esseri umani.
    «”Bene Hiroshi. Visto che hai deciso di far parte dei nostri, è giusto che ti dico gli obiettivi della sezione -13.”»
    «Obiettivi? Pensavo che a noi minus non servissero obiettivi.»
    «”Ehi, ehi, cosa dici Hiroshi? Siamo minus, ma siamo pur sempre umani. Anche noi abbiamo bisogno di obiettivi per vivere. E i nostri obiettivi sono tra i più nobili.”»
    Fa una pausa e mi guarda. La sua espressione ha qualcosa del giullare, eppure…
    «”Occupare il tempo tra l’uscita di un Shonen Jump e il successivo. Fare colpo sulla ragazza che mi piace. Compiere qualcosa di spaventoso, immorale e figo insieme, solo per il gusto di farlo. Questi sono solo alcuni tra i nobili obiettivi che la sezione -13 si impegna a eseguire, ma te ne potrei elencare mille altri di pari importanza.”»
    «Ti credo sulla parola.»
    Non riesco a trattenere l’allegria e questo sorriso sulle labbra. E del resto, perché lo dovrei trattenere?
    «”Vediamo… c’è altro da dire? Haiiro, ti pare che mi sia dimenticato qualcosa?”»
    Lui si gira e ci guarda, come da molto lontano. Da un campo fiorito e ripieno di macerie in cui parlano allegramente una folla di persone vestite a festa, tutti sconosciuti tranne una, Kasumi. Con uno sforzo che posso quasi percepire, si ritrae da quella distrazione mentale e riporta l’attenzione su di noi. Ma anche così la sua mente vaga tra mille pensieri che mi attraversano, troppo sfuggenti perché possa identificarsi, mentre il suo sguardo si posa sulle macerie della scuola ai nostri piedi.
    «La pietra angolo» dice con voce impastata «e la pietra scartata.»
    «”Oh, giusto, la pietra d’angolo scartata. Me ne stavo proprio per dimenticare! Per fortuna il nostro Haiiro si fa raramente sfuggire qualcosa.
    Dunque, Hiroshi, hai mai sentito questa frase? “La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. Se non l’hai sentita non è un problema. Sentila ora. Non è una bella frase? A me è piaciuta molto quando l’ho sentita per la prima volta.”
    “Sai, noi minus siamo un po’ come pietre scartate –
    fa piccoli passi, avanti e indietro, mentre parla. – Pietre difettose, tagliate male, dagli angoli storti. Pietre che non possono combaciare con le pietre normali. Pertanto, sono state scartate. Scartate da questa società in cui non possono inserirsi. Relegate ai margini, buttate via, lasciate ai bordi della discarica a marcire. Quando ho sentito quella frase, la pietra scartata che diventa pietra d’angolo, ho pensato che potrebbe essere stato il nostro destino. Il destino di noi minus scacciati dalla società: diventare la pietra d’angolo di una nuova società.”»
    Il mio sorriso è andato via. Assorto lo ascolto e soppeso il mio coltello: se il resto del discorso non mi piace posso sempre tagliargli la lingua. O sarebbe più veloce tagliargli direttamente la gola?
    «”Questo pensavo, e tuttavia c’era un altro pensiero che mi tormentava. Una volta che noi minus fossimo diventati pietra angolare di una nuova società, non avremmo forse fatto lo stesso? Non avremmo forse scartato le pietre che non si adattavano alla nostra società, come loro avevano fatto prima con noi?”»
    Lo vedo abbassare gli occhi e lo sguardo, come assorto, forse ricordando il momento in cui ebbe quella riflessione. Ma è altrettanto probabile che gli sia solo venuta voglia di guardarsi le scarpe.
    «”Io, capisci, non volevo compiere la stessa crudeltà che è stata fatta verso noi minus. Altrimenti, che differenza ci sarebbe tra noi e loro? Per questo ho cercato una soluzione alternativa che non comportasse ingiustizia di sorta. E, alla fine, l’ho trovata.”»
    Apre le braccia e ci guarda con occhi che scintillano di emozione.
    «”Non c’è bisogno di scartare pietre, né di farne pietre d’angolo. Non c’è bisogno di impalarle una sopra all’altra, né di farle combaciare. Infatti, non c’è alcun bisogno di costruire edifici di sorta. E perché dovremmo? Le pietre possono stare anche così come stanno, abbandonate per terra, l’una lontana dall’altra, l’una priva di relazione con l’altra. Tanto, anche se non costituiscono un edificio, le pietre continuano a esistere. E così gli uomini. Non serve una società. Non servono legami. Non servono relazioni. Sono solo un impedimento, una costrizione. Gli uomini vivono meglio se slegati, estranei, sconosciuti e indifferenti gli uni con gli altri.”»
    Tremo. Non mi sono sentito così emozionato da quando ho ucciso per la prima volta. O per l’ultima. O per tutte quelle in mezzo. In ogni caso è magnifico. Adesso capisco l’entusiasmo di Haiiro per Kumagawa. Il suo potere? No, quello è solo qualcosa in più. Ciò che è magnifico di quest’uomo è la sua mentalità. Per la prima volta nella mia vita, provo un sentimento di ammirazione verso una persona.
    «”Non servono edifici, non servono società. In fondo, non dicono tutti che la vita all’aria aperta fa bene?”»
    La vita ora mi appare più vivida che mai.


    Edited by Tabris_17 - 14/5/2018, 18:49
     
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    Kasumi Natsui

    La torre dell’orologio. Il centro dell’istituto Hakoniwa, sede del progetto Flask, dell’ufficio del preside e, dopo le nuove disposizioni, dell’ufficio del consiglio scolastico. Salire le scale che portato a quest’ultimo non è stato mai così difficile. La testa mi pulsa, lì dove mio fratello mi ha colpito, così tanto che ho l’impressione si sia formato lì un nuovo cuore che batte, ma come un corpo estraneo, qualcosa di spiacevole, al limite dell’ostile. Ogni passo che faccio sugli scalini è più pesante, più penoso, del precedente. Ma non dipende solo dal dolore della testa. È per aver fallito, è per l’ansia dell’incontro che mi attende e per ciò che devo fare. È perché, dopo l’incontro con quei minus, la mia voglia di disegnare, la mia sensibilità che mi indirizza verso ogni aspetto curioso del reale, si è come spenta, o forse atrofizzata. Quell’incontro è stato troppo intenso per potermi ora interessare delle quotidiane banalità. Un po’ come, dopo la visione di un film emozionante, la vita normale viene quasi a noia. O come quando, dopo aver bevuto un tè troppo caldo, la lingua si scotta e non è più capace di distinguere i sapori dei cibi.
    Alla fine arrivo al piano del consiglio studentesco. Guardo il corridoio di fronte a me e desidero poter evitare di percorrerlo, tornare indietro e dimenticarmi tutto. Invece cammino in avanti. Continuo a farlo finché non arrivo a una porta chiusa, davanti a essa due figure note.
    «Ehi, che aria corrucciata che abbiamo. Così non va bene. Il consiglio studentesco non solo rappresenta gli studenti, ne è l’espressione ideale. Qualcuno così mancante di grazia come sei tu al momento non può esserci ammesso.»
    «Lascia stare la grazia. Pensiamo ai soldi piuttosto. Sai quanti ne abbiamo spesi per evitare l’intervento della polizia nella tua disputa con quei minus? E neanche così siamo sicuri che frammenti del tuo scontro finiscano in rete, se qualcuno li ha ripresi col cellulare.»
    «Segretario Akune – bellimbusto vanaglorioso – c’è una bellezza anche nella depressione e nell'abbattimento. Se continuerai a vedere la bellezza solo in ciò che è positivo, perderai di vista ben più della metà di quanto il mondo ha da offrirti.»
    «Contabile Kikaijima – arpia avara – ma i soldi non erano tutto? Se sono tanto potenti, dovrebbero riuscire anche a evitare che eventuali filmati vadano in rete o a eliminarli.»
    La contabile mi guarda imbronciata e pronuncia qualcosa del tipo «non prenderti gioco dei soldi». Akune invece ride di una risata di circostanza.
    «Vedo che non hai perso il tuo parlare tagliente. Beh, spero che ti aiuterà anche con il presidente del consiglio.» Dicendo così apre la porta e, con un gesto della mano e un sorriso sprezzante mi invita, mi sfida, a entrare.
    Il mio cuore perde un battito. Entro.


    Il presidente del consiglio è seduto al centro della sua scrivania. Non alza lo sguardo appena entro, nonostante sia sicura che si sia accorta di me (pensare il contrario sarebbe assurdo). Mi avvicino e, a mezzo passo di distanza, apro la borsa e depongo sopra la scrivania i due disegni di minus.
    Senza una parola afferra i disegni e li osserva. Osserva con quei suoi occhi che sembrano capaci di penetrare ogni cosa e con quei medesimi occhi mi fissa poco dopo.
    Non posso trattenere un brivido. Rispetto ai minus, lei non trasmette quel sentimento di sbaglio, errore e caos, eppure non posso non pensare che in lei ci sia qualcosa di tremendamente innaturale. Come un robot che imita perfettamente un uomo, così perfettamente da mostrare la sua inumanità.
    Questo è ciò che penso guardando lei, Kurokami Medaka, il presidente del consiglio studentesco.
    «Vedo che mi hai portato qualcosa di interessante.»
    «Interessante…? Sì, immagino si possano definire tali. Ma non sono utili quanto pensavo. Anzi, non sono serviti a nulla.»
    Ripenso a mio fratello, a quella sua risata derisoria, a Haiiro e al suo parlare confuso, che ora mi appare altrettanto beffardo.
    «Non posso salvarli. Non posso nulla contro di loro. Pertanto, questa non mi serve più. Ve la ridò.»
    Accanto ai disegni depongo una fascia. Non l’ho indossata quando ho incontrato Hiroshi e Haiiro, del resto eravamo fuori dalla scuola, e ora non la indosserò più. Lei la osserva, senza dire nulla. Questo silenzio è pesante e sgradevole. Cerco la forza per romperlo, anche solo per congedarmi.
    «E ora, se mi scusa…»
    «No. Non posso riprendere questa fascia.»
    «Perché?! Io non posso fare più nulla, ormai! Sono inutile!»
    Con rabbia sbatto le mani contro la scrivania mentre lacrime di frustrazione velano i miei occhi. Ma il presidente del consiglio rimane impassibile
    «A decidere se sei inutile o meno sono io, non tu. E, dopo aver visto questi disegni, ho capito che mi sei utile. Più ancora di quanto non lo fossi prima.»
    Vorrei urlare e arrabbiarmi, ma è come se con il soprassalto di poco prima avessi esaurito tutte le energie. Ora sono solo stanca.
    «Perché? A cosa ti serve il mio Art Therapy ormai? A parte che non può combattere i minus, tu ormai dovresti essere capace di usarlo meglio di quanto possa fare io.»
    «Credo che ci sia un malinteso. Non è il tuo Art Therapy che mi serve. È la tua sensibilità artistica.»
    «Cosa…?»
    «Io posso adoperare meglio di te il tuo Art Therapy, posso usarlo alla perfezione, su questo non c’è dubbio. E tuttavia mi manca la capacità per cogliere l’animo di chi ritraggo e sublimarlo in un disegno, la capacità che tu invece possiedi. Questa capacità non è un’anormalità, né un minus. Si tratta invece dello sguardo peculiare di un’artista, uno sguardo di cui il mio The End può osservare gli effetti, ma che non può – non ancora – replicare e portare a compimento.»
    Non vorrei, ma un sorriso di compiacimento si disegna sulla mia faccia. È strano pensare che io possieda qualcosa che questa donna è incapace di avere.
    «Ho capito. O meglio, ho capito perché mi vuoi ancora accanto a te, anzi, perché mi hai chiamato dall’inizio. Però ancora non capisco come possa servirti contro i minus.»
    «È semplice: per comprenderli. La tua sensibilità, il tuo sguardo, mi serve per comprendere i minus e riuscire a fare miei i loro poteri. Ma non si tratta solo dei minus. La tua capacità mi serve per giungere a comprendere l’animo umano. Solo quando lo farò, potrò dirmi perfetta.»
    Un nuovo brivido mi pervade. È vero, quasi me ne dimenticavo, nonostante questo sia la cosa che non va dimenticata: il suo obiettivo finale. Lei sorride, si è accorta del mio disagio.
    «Io sono come una torre. La torre che si innalza fino ai cieli, il desiderio mai raggiunto dall’umanità. Raggiungere la perfezione: questo è lo scopo per cui io sono nata. Ma per giungerci ho bisogno dei mattoni chiamati uomini. Ho bisogno di osservarli, di comprenderli, di farli miei. Nessun mattone è indispensabile, ma insieme nessuno è da scartare: normali, speciali, anormali e minus, in modo diverso tutti loro contribuiscono all’edificazione della mia perfezione.»
    Mentre dice queste parole ripenso al ritratto che ho realizzato di lei, un disegno poco originale in realtà, già tratteggiato secoli fa. Il ritratto di un leviatano, un immenso mostro il cui corpo è formato da ogni essere umano. Queste è lei: un mostro che si appropria delle capacità di ogni uomo, le rende proprie e le porta a compimento, per diventare qualcosa di sempre più potente e vicino alla perfezione.
    «Ma anche se nessun mattone è indispensabile o da scartare, ve ne sono di più e di meno importanti. Tu sei senza dubbio un mattone importante, quindi seguimi.
    Non temere: non sono un’ingrata. A tutti quelli che mi seguiranno, farò in modo di realizzare i loro desideri. A chi mi presterà anche solo una parte della sua forza, io lo ricompenserò sforzandomi con tutta me stessa, per compiere ciò che non può realizzare. Anche se tu non sei in grado di far nulla per tuo fratello, io lo farò.»

    “Io lo farò”… Quando ho visto il disegno di Haiiro e Hiroshi ho pensato che fosse impossibile salvare un minus. Eppure… eppure lei è capace di convincermi del contrario. Mi fa pensare che, se è lei, allora ci può riuscire. La sua forza è la forza di ogni uomo, unita e perfezionata. Per questo lei può realizzare ciò che per gli altri è impossibile. Non so se davvero può raggiungere la perfezione. Non so se è un bene che si raggiunga la perfezione. Non so se le si debba permettere di raggiungere la perfezione. Ma so che lei non mente. Se la seguirò, lei davvero mi supporterà con tutta la sua forza.
    Ripenso a quei minus, di fronte ai quali io a malapena sono riuscita a reagire. Che altre alternative ho, se non di appoggiarmi a lei?
    «Ho capito. Kurokami Medaka, presidente del consiglio studentesco, mi permetta di starle ancora accanto.» Pronunciando quelle parole, mi rimetto la fascia al braccio.
    «Mh. Ovviamente accolgo la tua collaborazione. Ora come in passato, mi aspetto grandi cose da te, addetta agli affari generali Natsui.»


    FINE DEL PROLOGO

     
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    Complimenti, ottimo lavoro, in certi tratti impressionante nelle sfumature più positive del termine - nonostante sia il trionfo dei negativi. Dallo spazio che ha avuto già mi sento di dire che il tuo Kumagawa è splendido ed ha sublimato la parte dei minus. Haiiro e Hiroshi estremamente interessanti ma ora, con il post finale, bramo di vedere ancora Kasumi interagire con il consiglio studentesco e soprattutto con questa Medaka e con le sensazioni che mi trasmette.

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