Posts written by Tabris_17

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    Ovviamente, la piscina era olimpionica. Era il liceo Hakoniwa dopotutto: se aveva qualcosa, doveva essere esagerato. Il complesso? Tanto vasto da perderci. Le aule scolastiche? Altro che tredici classi, ne avrebbero potuto ospitare il doppio. I club scolastici? Dotati di attrezzatura da far invidia a una squadra professionista. Per non scomodare altre strutture come il centro concerti. C’era da credere che se qualcuno fosse stato tanto malaccorto da esprimere il desiderio di provare un’arrampicata, avrebbe trovato il giorno dopo una delle montagne dell’Himalaya di fronte al liceo, con la presidentessa del Consiglio che scalpitava per cominciare la scalata.
    Quasi quasi le veniva voglia di mandare una lettera alla Medaka Box solo per vedere cosa sarebbe saltato fuori.
    Quello che non aveva voglia di fare, era mettersi a pulire una piscina lunga 50 metri e larga chissà quanto. D’estate poi. Sotto il sole. Moriva solo a respirare, figuriamoci a spazzolare. Che senso aveva costruire una piscina enorme se non c’era adeguato personale per pulirla? Ma da quell’orecchio il Consiglio studentesco non ci sentiva, o meglio avrebbe replicato con manfrine sui doveri degli studenti e altre menate varie. E Kasumi aveva pescato la pagliuzza corta. Letteralmente.
    Il ragazzo addetto alla pulizia si era slogato un braccio, così nella sua classe avevano sorteggiato chi lo dovesse sostituire. Lei quel giorno doveva andare al club d’arte, aiutare suo fratello al locale e per ultimo andare a un appuntamento. Ma quegli impegni non avevano potuto nulla contro la cieca sorte.
    E adesso era giunta di fronte alla vuota e desolata piscina scolastica, spazzolone in una mano, secchio mezzo pieno d’acqua nell’altro. Davanti a lei, attrezzato alla medesima maniera, un altro ragazzo. Solo che era disteso per terra, inerte. O era svenuto per il caldo, o era ancora più depresso di lei e cercava di annegare sulla terra.
    Gli versò addosso l’acqua del secchio. Era una misura utile in entrambe le circostanze.
    «Forza, c’è del lavoro da fare.» E lei aveva un appuntamento quella sera. Fece per camminare oltre, ma la sensazione di aver tralasciato qualcosa, come un tarlo che raschiava in un angolo della sua mente, la fermò. Lanciò una seconda occhiata al suo compagno di sventura. Ragazzo, bell’aspetto, occhi insoliti. Un buon soggetto per un dipinto. Un soggetto che conosceva già, pur non avendolo mai ritratto.
    «Aspetta, tu sei… Tatsuya? L’amico di Haiiro?» Sorrise. Le era capitato uno singolare. Forse non sarebbe stato così male. «Pare che io e te ci incontriamo solo per questi lavori scolastici. Mi preparerai anche stavolta una kitsune soba?»
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    La sorpresa di Tatsuya fu inaspettata, ma Haiiro se la godette con un sogghigno, interrotto solo dallo schiudersi delle labbra per bere un altro sorso di caffè. Quando però il capo-cameriere si fu ripreso, sfoggiava un aperto sorriso.
    «Si, è vero… Si chiama Nora».
    Strano nome.
    «Non l’hai mai vista perché va in un’altra scuola, altrimenti l’avresti notata di sicuro visto che è europea come me… ed è la sorella di Jan»
    Questo spiegava il nome particolare. Ed era la sorella di Jan. Jan… Era sicuro di averlo già sentito. Del resto se Tatsuya lo aveva menzionato, era perché lo conosceva pure lui. Se si concentrava su quel nome, l’immagine che gli veniva in mente era…
    Camerieri indiscutibilmente maschi che si muovevano sinuosi tra i tavoli, il petto nudo coperto solo da un papillon, circondati da uno stuolo di ragazze che li guardavano estasiate, mentre loro non le prestavano alcuna attenzione e invece si ammiccavano a vicenda con fare allusivo.
    La realtà era un poco meno discinta, ma il concetto era quello.
    «Ah, certo. Jan. Uno dei nuovi camerieri yaoisti.» Ricordava la prima volta che li aveva incontrati: il locale era pieno di ragazze che si lasciavano andare ad esclamazioni di estasi ogni volta che due di quei camerieri si avvicinavano l’un l’altro. Haiiro era rimasto spaesato, non tanto dai loro atteggiamenti ma dall’atmosfera surreale del maid. Aveva chiesto a due ragazze al tavolo accanto una spiegazione; la risposta di una delle due era stata: «Voi maschi venite qua per vedere le cameriere, no? E noi ci veniamo per vedere i camerieri.» La cosa non aveva alcun senso, lui al Maid ci andava per bere il caffè, ma aveva dovuto arrendersi all’evidenza.
    «Qualche volta potremmo organizzare una uscita in quattro, magari alle ragazze potrebbe fare piacere avere qualcuno con lui lamentarsi di noi.»
    Quelle uscite di coppia dovevano essere più frequenti di quanto si immaginasse: ne aveva fatta una con Goro e Asako poco tempo fa e ora Tatsuya gliene proponeva un’altra. Perché no? L’ultima volta si era divertito, e anche Kasumi aveva apprezzato la compagnia. Oltre ad aver scoperto una sua peculiarità che non conosceva. Trasporre su disegno parte dell’animo della persona disegnata… chissà cosa sarebbe venuto fuori con Tatsuya. E chissà con Nora. Non la conosceva, ma per fidanzarsi con il demone del Maid, per farlo sorridere a quel modo solo a nominarla doveva essere… come dire? Notevole? Provò a immaginarsela, ma gli venne in mente solo un vago profilo femminile senza volto.
    «Perché no?» Ripeté ad alta voce. Riportò il bicchiere alle labbra, l’amaro nettare del caffè con il suo sapore intenso che fluiva nella sua gola…
    «A proposto, come va con Kasumi? Immagino sempre meglio, con tutto l’allenamento a cui ti sta sottoponendo Nabeshima non mi sorprenderei se inviasse alla senpai un bel regalo di ringraziamento per il fisico che ti sta costruendo.»
    … Per rifluire, travolto da un flusso contrario di saliva, dalla sua bocca alla tazza, in un atto che Haiiro avrebbe ritenuto blasfemo se non fosse stato impegnato a non farsi soffocare dall’amata bevanda.
    «Di…» Provò ad articolare le parole, ma queste si persero in un nervoso tossicchiare. Mandò giù la saliva per due volte, mise giù la tazza di caffè, si pulì la bocca con una salvietta in carte.
    «Dici?» La voce era roca, incerta, ma almeno riusciva di nuovo a parlare senza strozzarsi. «Le farà piacere? Voglio dire, non so se è tipa da far caso a queste cose. Cioè, a dire la verità io non ci avevo manco pensato, che potesse farle piacere…»
    Sul pavimento, l’ombra del ragazzo smise per un istante di seguirne i movimenti per scuotere la testa con disappunto. Haiiro non le badò, intento com’era a lanciare un’occhiata al proprio braccio, per coglierne un eventuale rigonfiamento. Non vide nulla, ma forse era colpa della manica del vestito che lo copriva. Del resto era migliorato come prestazione fisica, quindi per logica doveva aver messo su pure muscoli: minus o anormale che fosse, il suo corpo funzionava come quello di una persona normale. Con un 'più o meno' grande quanto una caffetteria.
    «No, a parte gli scherzi… o non era uno scherzo?» Con un movimento che sperava sembrasse casuale, appoggiò la mano sul braccio opposto. Tastò. Era più sodo, più muscoloso di prima?
    «A parte quel che era, con Kasumi va… bene? Voglio dire, a causa di questa cosa degli allenamenti ci vediamo meno spesso di prima. Però comunque anche lei è occupata con il suo club, e visto che quelli d’arte non hanno orari rigidi – mica si devono trovare tutti insieme per allenarsi come noi – cerca di andarci quando io sono a judo.»
    Gli dispiaceva non potersi trovare con Kasumi come prima. Fosse per lui potevano avere un appuntamento anche alle due di notte, ma lei non era dello stesso avviso. Colpa dei negozi chiusi, probabilmente. O forse delle ore di sonno. Non ricordava mai quante gliene servissero per sentirsi riposata.
    «Certo, quella volta che ho sbaglio giorno, ero convinto che ci fosse allenamento di judo, invece avevo un appuntamento con Kasumi di cui mi ero dimenticato e sono finito a giocare a basket, non ne è stata molto contenta… Cioè, non mi ha rivolto parola per tre giorni. Avrei preferito mi facesse i suoi soliti commenti sarcastici, invece niente. Silenzio. Ho saltato di gioia quando alla fine mi ha mandato un vocale.»
    Salto a causa del quale era finito contro lo stipite della porta. E il vocale diceva solo «Hiroshi ti invita da noi a bere un caffè». Ma una volta lì la ragazza si era pian piano sciolta e alla fine della serata l’aveva riaccompagnato al suo appartamento. Il giorno dopo Haiiro era andato a ringraziare Hiroshi. Lui l’aveva fissato sorpreso, poi si era messo a ridacchiare. «Guarda che io non ti ho invitato.»
    «In certe cose è davvero impacciata. E carina.» Sussultò. L’aveva detto ad alta voce? Spiò l’espressione di Tatsuya. «Non dire che te l’ho detto. Si imbarazza.»
    Prese un altro sorso di caffè. Era già un poco più freddo.
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    Benvenuta Sergy!
    Come ti hanno anticipato, per ogni dubbio o domanda ti puoi rivolgere a noi master: 24 ore al giorno, 365 giorni all'anno, noi esistiamo per servire gli utent... No, magari non arriviamo a questo livello, però il concetto è quello, quindi non farti problemi a chiedere ;)
    Per il resto, buona permanenza su forum; spero di vederti ruolare il più presto possibile ^_^
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    CITAZIONE
    Haiiro sentì due braccia afferrarlo e sollevarlo di peso. Si ritrovò a fissare il volto severo del suo servant e, oltre, un lembo di cielo.
    «Cosa…?»
    «È il modo più rapido e sicuro per spostarci. Sempre che non vuoi che ti lancio.»
    “No, ma così è imbarazzante” avrebbe voluto rispondere. Anche se non c’era nulla di romantico nel modo in cui lei lo teneva. Ma non fece in tempo a dire nulla, perché il suo servant balzò in avanti, a velocità formidabile. Il vento gli schiaffeggiò la faccia, costringendolo a socchiudere gli occhi; Haiiro smise di preoccuparsi dell’imbarazzo, più interessato alla conservazione della propria vita. Non si sentiva più nell’animo giusto per rimproverare l’altra master.
    Quello gli portò alla mente una cosa. Sicurezza. Dovevano evitare di essere visti. Chiuse gli occhi, si concentrò sui propri circuiti magici per ignorare la pressione dell’aria e il senso di rapido movimento. Mormorò parole che si persero nel sibilo del vento, ma il loro effetto permase. La rifrazione della luce sui loro corpi si modificò, in modo da nasconderne la presenza. Erano invisibili ora.
    «Bel lavoro, master.» Haiiro portò la mano di fianco al volto per coprirsi la faccia dal vento.
    «Dov’è l’altra coppia?» Gridò per farsi sentire. Ma il suo servant scosse la testa.
    «Immagino che si siano mossi a loro modo per raggiungere la battaglia.» Ripensando alla master lanciata in aria, Haiiro si disse che il suo servant aveva ragione a prenderlo in braccio. Meglio quel metodo che l’alternativa.
    Com’erano partiti, così si fermarono. I piedi di Haiiro toccarono di nuovo terra, il duro soffitto di un edificio su cui si erano posati, ma il ragazzo ritornato in posizione verticale si sentì girare la testa, macchie di colore che brillavano di fronte ai suoi occhi. Dovette appoggiarsi al suo servant per evitare di cadere.
    «Master, non ho voluto sollevare l’argomento in precedenza, ma sei sicuro che le tue condizioni fisiche siano idonee per una guerra? Quelle occhiaie e il malessere di adesso mi fanno pensare che…»
    «Sto benissimo. No, non è vero. Ma non sono abituato a spostarmi così.» Si prese un momento per riprendere fiato. E lo vide. Lo spettacolo che si stava svolgendo di fronte agli occhi, sulla sommità di un altro edificio poco lontano da loro.
    Scuri nubi, bestie d’ombra, maghi e servant che intraprendevano battaglia. Sentì il cuore battere più forte nel suo petto, un groppo allo stomaco, un senso di urgenza, l’ansia e la paura di un simile combattimento, un assurdo sorriso sul volto. Quanti maghi avevano potuto ammirare nella loro vita quello spettacolo? Quanti avevano potuto evocare i famigli più potenti in assoluto, i servant, e utilizzarli in battaglia? Pochi, pochissimi. E lui era tra quelli. Riconobbe la sensazione che gli scaldava il petto: orgoglio.
    Il freddo clangore di una lama estratta dal fodero lo riportò all’attenzione. «Mi piace la sua espressione, master, ma è meglio se rimani qui, al sicuro. A combattere ci penso io.»
    «Se anche ti dicessi di non intervenire e limitarti a riposare, non lo faresti vero?»
    «No. Anche se la battaglia per ora non coinvolge civili, c’è la possibilità che…»
    «Fai onore al tuo titolo e alla tua classe.» Sospirò. «Beh, non posso dire di essere d’accordo, ma se vuoi così, va bene. Solo, fai attenzione a prendere nota di tutti i servant presenti, le loro classi e ogni caratteristica che ci possa essere utile.»
    «Una simile precisazione è superflua. Era già ovvio che ne avrei tenuto conto.»
    «Fino all’ultimo, non dai soddisfazione, eh Saber?»
    Ma il servant era già balzato nell’altro edificio, protetto dall’incantesimo di invisibilità, e calò un fendente argentato sulla prima creatura d’ombra che trovò. L’incantesimo si ruppe, mostrando la figura elegante e marziale di Saber, i lunghi capelli lisci alle spalle, la spada nel braccio destro, lo scudo nel sinistro. Senza interruzione di continuità, sferrò un secondo colpo di dritto.
    Poi si portò vicino alle due figure dotate di archi, lo scudo levato. Sentiva che non erano servant, anche se non comprendeva la loro reale natura, ma in quel contesto non importava. Potevano distruggere le nuvole scure e quello bastava. Se necessario le avrebbe protette.
    Haiiro assisteva invece dall’alto dell’edificio accanto, ancora nascosto dal suo incantesimo di invisibilità. L’entusiasmo di prima a poco a poco si stava spegnendo e si scoprì a chiedersi se fosse sicuro rimanere così vicino, senza la protezione del proprio servant.

    Error 404
    STATS
    NOTE DI BATTAGLIA
    Slot Attacco: 2  Slot Difesa: 2  Slot Joker: 1  Cariche: 0

    Slot Joker: Invisibilità
    Slot Attacco 1: Fendente di spada contro una bestia d'ombra nemico
    Slot Attacco 2: Secondo colpo di spada contro altro nemico d'ombra
    Slot Difesa 1: Si posiziona a scudo alzato di fronte alle Shikigami, pronta per la difesa
    Slot Difesa 2: /

    Coded by ¬SasoRi
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    «Parlato Haiiro»
    «Parlato Kasumi»

    Haiiro & Kasumi

    Calca s. f. – Grande affollamento di persone pigiate l'una sull'altra.
    Questa descrizione, spudoratamente copiata dal dizionario online del Corriere, ben esprime l’ammassarsi di gente che si muoveva all’interno del centro concerti per prendere ognuno il proprio posto. Visto dall’alto, il muoversi, mescolarsi e accalcarsi delle persone avrebbe ricordato molto il frenetico affaccendarsi delle formiche all’interno di un formicaio; solo molto più caotico. Da tale visuale le persone si sarebbero tutte confuse le une con le altre, solo un poco più indifferenziate tra loro rispetto alle formiche per la multiformità del loro vestire. Abbandonando quella privilegiata posizione e calandosi più in basso, le differenze di atteggiamento tra le persone sarebbero aumentate, in misura tanto maggiore quanto più si restringesse il campo d’osservazione.
    Tra tutta la folla – o calca – di persone, prendiamo a osservare due ragazzi, o per la precisione un ragazzo e una ragazza. Che fossero assieme era evidente dal modo in cui si guardavano, cercandosi l’uno con l’altro per non perdersi tra la calca. Il modo in cui si tenevano per mano, per quanto talvolta la massa di gente li costringesse a lasciare la presa, denunciava che fossero una coppia.
    Riguardo alla ragazza, possiamo dire che il suo sguardo passasse dagli occhi spalancati a mo’ di cervo che si ritrova circondata da un branco di lupi, a uno sguardo come di sfida, di ferocia appena trattenuta, contornato da un sorrisetto che ne increspava le labbra e sembrava dire: “Qua, il predatore sono io”. Il passaggio dall’uno all’altro stato possedeva una sua regolarità: più persone si accalcavano intorno a lei, più i suoi occhi da cerbiatti si spalancavano e più lei cercava, senza riuscirsi, di sottrarsi alla calca. Giunta al limite della sopportazione avveniva il mutamento e da spaventata preda si mutava in furibondo predatore. Il suo respiro si colorava di un tenue luccichio turchese, che pure si confondeva nelle luci della sala, e le persone attorno, tranne il suo ragazzo, si ritraevano sospinte dall’istinto e da una momentanea debolezza. Una volta libera da quell’attorniarsi di gente, tornava a respirare normalmente, le persone tornavano ad accalcarsi l’un l’altro e il ciclo ricominciava.
    Quanto al ragazzo, egli pure condivideva con lei quella duplicità di atteggiamento, sebbene in modi del tutto diversi. Di consueto pareva presentare la sorprendente e quasi straordinaria capacità di essere sempre d’impaccio alle altre persone. Andava a destra per schivare un tipo e si trovava proprio sulla strada di un secondo. Provava a infilarsi in un varco tra la folla e finiva addosso a un terzo. Pareva incapace di percorrere mezzo metro senza ostacolare, urtare o pestare i piedi di qualcuno. Il suo passaggio era irto di occhiatacce e improperi a mezza voce da parte degli altri presenti. Eppure talvolta chiudeva gli occhi e cominciava a muoversi fendendo la calca senza né toccare né essere toccato da nessuno, passando con grazia e noncuranza invidiabile in mezzo alla folla con un’impalpabilità pari all’aria. Non c’era all’apparenza alcuna regolarità nel suo passare da uno stato all’altro, né pareva esser conseguenza di urti o occhiatacce, a cui non dava il minimo peso; semmai sembrava compiacere un suo segreto gioco.
    Infine, l’ultima caratteristica osservabile e degna di nota dei due, che traspariva talvolta dall’espressione di riluttanza e sordo stupore per la loro stessa presenza, era che nessuno dei due aveva la minima idea del perché si trovassero lì in quel momento.
    Non era certo per sostenere la loro scuola distrutta con l’acquisto dei biglietti. Se la ragazza, Kasumi, avesse voluto fare qualcosa per la scuola, avrebbe piuttosto pensato a organizzare con il suo club d’arte una mostra di dipinti. Quanto al ragazzo, Haiiro, riteneva che la distruzione di uno o due edifici in un complesso enorme come l’Hakoniwa non fosse poi una così grande tragedia e che i soldi per il biglietto sarebbero stati meglio utilizzati per l’acquisto del caffè.
    Non era neanche un loro supposto interesse verso la musica o le idol a spingerli là quel giorno. Haiiro ascoltava ogni tipo di musica gli capitasse a tiro di orecchio, ma non ne ricordava nessuna, se non qualche sigla di anime. Kasumi aveva scoperto di apprezzare un certo tipo di musica pop rock, benché non si potesse ritenere un’appassionata. L’interesse di Haiiro per le idol era pari al suo interesse per la presenza nelle macchine del caffè di un bottone con scritto sopra “cioccolata”, mentre Kasumi le riteneva poco più di un feticcio per maschi con qualche problema mentale.
    Purtroppo per lei, aveva scoperto che uno di quei “maschi con qualche problema mentale” era il suo stesso fratello, Hiroshi. Costui aveva acquistato due biglietti per il concerto e li aveva regalati a loro. Il dono non richiesto era stato accompagnato da un lungo discorso di Hiroshi su quanto adorasse Yuuna Mishima – corredato da una puntuale descrizione della sua carriera, di cui però i due ricordavano solo “idol dei sogni” e “voci non confermate di una tresca col manager” – su quanto avrebbe voluto partecipare lui a quell’evento, ma non potendo voleva che andassero loro due a divertirsi per lui e che, se possibile, gli descrivessero poi com’era stato il concerto. Considerando che era quanto di più simile a una richiesta Hiroshi avesse mai fatto loro, i due si videro costretti ad andare. Anche se Kasumi non riusciva a scuotersi di dosso la sensazione che fosse stata tutta una pantomima del fratello, allo scopo di spingerli in un luogo pieno di gente nonostante la loro naturale riluttanza per simili occasioni.
    «Dannato Hiroshi…»
    «È un po’ tardi per lamentarsi, no?» Rispose lui con una nota di ironia.
    Lei si mordicchiò le labbra, irritata per non poterlo contraddire.
    «Dai, rilassati. Ormai che siamo qua cerchiamo di divertirci.»
    Dopo qualche istante di lotta interiore, la ragazza si convinse a seguire il consiglio. «Hai ragione. Già che ci siamo, divertiamoci al massimo.» E si girò verso una coppia lì vicino, che da bravi fan, e a differenza loro, avevano acquistato pure le lucine colorate. «Potreste darci i vostri bastoncini luminosi? Abbiamo perso i nostri nella calca e sarebbe davvero, davvero difficile far tutto il giro per andarne ad acquistare degli altri. Ma sarebbe davvero un bellissimo gesto di solidarietà, degno dei fan dell’idol dei sogni, se voi ci donaste i vostri.» Accompagnò quell’altrimenti ridicola pretesa con una forte dose del suo Cast Down, uno sviluppo del suo potere con cui era capace di attenuare le emozioni delle persone, per annullare ogni loro possibile replica. I due, con un’espressione imbambolata abbastanza preoccupante, allungarono i loro bastoncini verso Haiiro e Kasumi, che non si fecero pregare.
    «A volte mi faccio paura da sola…» In realtà l’unica emozione rintracciabile nelle sue parole era la soddisfazione. Haiiro si limitò a scuotere il capo, nascondendo il sorriso. Fu in quel momento che il concerto ebbe inizio, con la letterale discesa della idol sul palco.
    ««EHILA'! CIAO A TUTTI DREAMERS!!!»
    «Dreames… idol del sogno… no, dai, non può essere un motivo tanto stupido ad aver spinto Hiroshi a farci andare proprio da questa idol…»
    «Che stai dicendo? Ha detto che è la sua idol preferita, no?»
    L’inizio del concerto interruppe la conversazione. I due si decisero a lasciarsi andare alla musica e all’atmosfera. Era la prima volta che assistevano a un concerto.


  6. .
    Sensi e pensieri non giungono in modo simultaneo. Quanto ha intorno viene registrato dalla sua retina, ma la mente è incapace di dargli un senso logico. Sedie, letto, scrivania, disegni e astucci. Quegli oggetti tanto ordinari gli paiono privi di significato, troppo normali per essere reali. Si alza con passi da ubriaco, si dirige verso il tavolo. Tocca una matita, la fa rigirare tra le sue dita, ne sente le scanalature.
    È la realtà… Quel pensiero è l’unico che riesce a formulare per molto tempo. Dopo quando ha visto, dopo quanto ha vissuto, il poggiare i suoi piedi nelle stabili strutture della Terra è abbastanza per appagarla. Solo quello conta: essere tornato al suo mondo. Dove si trovi in quel momento è una preoccupazione secondaria. Talmente tanto che gli ci vuole molto tempo prima di accorgersi che quella non è la sua stanza. Quella è la camera di Kasumi, il letto sfatto, i pennelli, matite e gomme sulla scrivani e disegni in ogni dove. Ma lei non c’è.
    I suoi occhi vanno alla finestra, in frantumi, pezzi di vetro che riflettono la luna bianca. Solo dopo, alzandosi, si posano su quello che per primo avrebbero dovuto vedere. L’uomo alto due metri, dalla pelle nera e gli occhi maligni.
    «Nyarlathotep. Perché sei ancora qui?»
    «Perché non dovrei esserci? Tu mi hai invitato. E ora hai invitato tutti loro.»
    Vi è una derisione in quelle parole, celata eppure manifesta. Ma Haiiro non ha tempo da perdere.
    «Dov’è Kasumi?»
    «È il mio ultimo dono per te. Un atto di compassione non dovuto. Celare quanto non sopporteresti di vedere.»
    Per un attimo crede di star sognando. Per un attimo tutto quanto lo circonda perde di senso.
    «Dov’è Kasumi?»
    «Tu hai aperto la porta e loro ti hanno seguito. Gli esseri degli altri reami. I servitori degli Altri Dei. Il sentiero si è aperto per loro come per te e hanno attraversato la soglia.»
    «Dov’è Kasumi?!»
    Con mani come artigli si getta contro la nera figura. Ma essa svanisce come nebbia. E di fronte a Haiiro si rivela lo spettacolo prima celato. Kasumi è in piedi, con le braccia protese verso il ragazzo. Le sue stesse viscere, estratte dal basso ventre, legate al soffitto e alle spalle, fanno sì che mantenga quella posizione. Gli occhi sono sotto la bocca; la testa è stata staccata e rimontata capovolta. Tra le mani è posato il suo stesso cuore, offerto ad Haiiro in una crudele irrisione. Sembra una di quelle macabre composizioni che a lei piacciono tanto.
    Haiiro non grida. Non si muove. Non fa nulla. Con l’immagine della ragazza impressa a fuoco nella sua retina, la sua mente scivola via in un luogo distante tanto dal mondo del sogno quanto da quello della realtà. Non si accorge della sua ombra risucchiata negli spazi siderali dove risuonano monotoni flauti.
    Fuori, oltre i vetri spaccati della finestra, le figure alate dei Magri Notturni si librano in lontananza. Nuovi orrori corrono per il mondo o si mimetizzano al suo interno. Da qualche parte Nyarlathotep ride.

    FINE
    per ora

  7. .
    La disperazione è un velo che lento si posa sulla pelle e permea tutto il suo corpo. Gli esseri alati oscurano l’occhio di Nyarlathotep; senza di esso non vi è sentiero, né porta d’argento per tornare a casa. “Non dovrai mai deviare dal sentiero. Sarebbe la tua fine”. Quelle erano state le parole dell’essere. Non dubita della loro veridicità.
    Le bestie dalle cento zampe si avvicinano veloci a lui, più indietro arrancano i lenti alberi-serpenti. Le rocce rimangono dove sono, disseminate sulla pianura, apparentemente incapaci di muoversi. Haiiro chiude gli occhi. Trova strano come, pur non credendo di poter salvarsi, non riesca ad accettare di arrendersi. Fino alla fine, lui combatterà.
    Non può richiamare i suoi sogni, non può richiamare la sua ombra. Non in quel luogo. Ma il suo corpo è lì e quello utilizzerà. Il Fighting Sleep. I muscoli si tendono, i sensi si acuiscono. Anche con gli occhi chiusi, percepisce lo zampettare forsennato dei lupi-centopiedi e il raspare della terra degli alberi-serpenti. Avverte una musica cadenzata risuonare chissà dove: il suono monotono di flauti lo sovrasta e lo fa tremare; cerca di non soffermarsi su di esso. Tende invece le orecchie verso gli esseri alati che coprono l’occhio di Nyarlathotep. Ma non avverte nulla: né il planare delle ali né un qualche verso. Ai suoi sensi quelle creature sono invisibili. Eppure proprio loro sono il suo bersaglio.
    Si gira e corre verso la montagna, si mette a scalare, alterna braccia e gambe in quella folle ascesa. Più su, sempre più su. Fin quando i suoi piedi sentono sotto di sé solo la pressione aguzza della cima. È allora che balza verso l’esterno, verso l’alto. Tende le braccia ad afferrare quanto non può percepire, quanto è a lui invisibile, senza sapere se siano lì o se si librano ben più in alto nel cielo.
    Le sue dita sfiorano una membrana. È molliccia, rugosa e viscida assieme. Inghiotte il disgusto e prende a risalire quel corpo filiforme. Dita aguzze, affilate, premono sulla sua carne, dipingono strisce di sangue come Kasumi traccia disegni con la matita sulla carta bianca. Ma lui continua a risalire su quel corpo innaturalmente lungo, su quella carne dalla consistenza disgustosa. Risale, fino a toccare il liscio ovale che è il volto. E da lì salta, afferra un altro di quegli esseri e di nuovo comincia la sua risalita.
    Presto l’intero branco è su di lui. I loro artigli straziano la sua carne, talvolta lo afferrano e cercano di gettarlo a terra. Lui si dibatte, con più disperazione che forza, ignora il dolore, continua la sua ascesa. La stessa consistenza dello stormo, che ha permesso loro di oscurare l’occhio di Nyarlathotep, permette ad Haiiro di avanzare e ostacola i loro tentativi di rigettarlo a terra.
    Infine, quando dopo l’ennesimo salto da uno dei grotteschi esseri le sue mani non si stringono intorno a un nuovo corpo, apre gli occhi. Su nell’alto cielo osserva il ferino occhio di Nyarlathotep nel suo indescrivibile colore. E l’occhio di Nyarlathotep torna a osservarlo, la protezione dell’essere si stende di nuovo su di lui. Gli esseri alati, con muta rabbia, scappano via.
    Haiiro cade, ma all’ultimo la caduta rallenta. Il nero sentiero è ai suoi piedi, la porta d’argento di fronte a sé. Le altre mostruosità costrette ad attendere oltre il sentiero. Si mette a quattro zampe e striscia per la porta aperta. La sua mente va all’unico luogo in cui vuole essere in quel momento. Tutto intorno a lui svanisce.
  8. .
    Di fronte ad Haiiro si stende una pianura. Gli spazi siderali sono svaniti, l’unica traccia che ne rimane è alta nel cielo scuro, dove brillano luci lontane di stelle e un grosso ovale. Non è la luna, anche se ne ha la dimensioni. Al suo centro brilla una pupilla stretta da felino, l’iride di un colore indefinito. Gli pare giallo all’inizio, poi pensa sia rosso e dopo ancora verde. Più lo guarda più la natura di quel colore gli sfugge. Alla fine distoglie lo sguardo. Sa cos’è: un’altra delle cento forme di Nyarlathotep. L’essere, il dio se tale è, ha mantenuto la sua promessa di osservarlo.
    Sotto di sé ha una strada, nera e lucente; pare di vetro o di una gemma proibita. Vorrebbe lanciarsi lontano da quella superficie che troppo gli ricorda il nero degli spazi siderali. Ma l’essere l’ha avvertito di non lasciare il sentiero quindi si fa forza e avanza. La pianura gli era sembrata vuota e vasta al primo sguardo, eppure dopo pochi passi si trova di fronte a un bosco. Non esita; conosce quelle illogicità così frequenti nei sogni. Inoltre il sentiero si snoda al suo interno, sa che deve seguirlo secondo le istruzioni dategli. Ma Nyarlathotep gli ha detto anche altro: avrebbe incontrato in quel luogo molte cose folli e terribili.
    Sussulti accompagnano il suo passaggio per il bosco, movimenti intravisti con la coda dell’occhio e persi l’attimo dopo. Ombre che saettano nel buio. Si chiede quali esseri abitino il bosco. Ha la sua risposta quando uno dei rami si snoda verso di lui e apre serpentiformi fauci. Ma nessun suono esce dalla cavità. Come un segnale gli altri alberi smettono di celare la loro forma. I loro rami sono serpenti che guizzano verso il ragazzo o si gettano contro altri alberi ingaggiando surreali combattimenti. Gli stessi alberi, con goffi passi, si avventano l’uno contro l’altro. Mordono, si stringono nelle rispettive spire, si uniscono e si separano nella forsennata lotta. L’intero bosco si muove, combatte contro sé stesso, minaccia Haiiro con feroci spire.
    Lui è assediato da ogni lato, barcolla a destra e sinistra a seconda dei rami-serpenti che lo attaccano. Poi si accorge: gli alberi non possono avanzare sul nero sentiero, i loro rami non possono allungarsi più che pochi centimetri al suo interno e poi devono ritrarsi. Il blasfemo sentiero lo protegge da quegli esseri; Nyarlathotep blocca la loro avanzata. Haiiro riprende il cammino; con tutte le sue forze cerca di non badare alla lotta dei mostruosi alberi.
    Com’è comparso così il bosco svanisce. Cammina ora per una distesa sassosa, grosse rocce che lo circondano da ogni lato. I massi si espandono e contraggono come se stessero respirando. Quando il sentiero conduce Haiiro vicino a essi, questi aprono mille occhi a guardarlo; ogni masso fa sguizzare fuori una lingua giallastra che si agita nell’aria cercando di ghermirlo. Haiiro avanza.
    Cammina per la pianura. Accanto a lui, a destra come a sinistra ma non sopra il nero sentiero, corrono bestie simili a lupi, ma con tante zampe che il loro movimento assomiglia a quello dei centopiedi. I loro corpi sono allungati all’inverosimile, il pelo si mischia e si interseca a duri segmenti di esoscheletro senza logica apparente. Molte delle zampe sono rivolte verso l’alto e si agitano inutilmente all’aria. Al posto della testa hanno un’unica protuberanza simile alla proboscide degli elefanti. Sbandano ora a destra ora a sinistra, cercano di tagliare la strada di Haiiro, di spaventarlo. Ma lui ha imparato: mantiene la rotta di fronte a sé, sul nero sentiero che essi non possono calcare.
    È solo nella pianura. In lontananza davanti a lui c’è una gigantesca porta d’argento collocata sul fianco di una montagna. È lì che il sentiero ha fine, è quello il varco per tornare al suo modo. Ma quanto è grande? Gli pare più alta di un grattacielo e si chiede come possa aprirla con le sue forze. Forse Nyarlathotep lo aiuterà? Ma mentre avanza se ne accorge: più si avvicina alla porta, più questa diventa piccola. Quando la raggiunge deve chinarsi per aprirla. Appoggia le gambe e le braccia sul nero sentiero per poter strisciare al suo interno.
    È finita. Sto per tornare a casa.
    Un’ombra, no, mille ombre oscurano l’occhio di Nyarlathotep sopra di lui. Ali scure volteggiano nel cielo, lo sovrastano. Esseri dai lunghi colli e dagli arti affusolati, le ali di cuoio come i pipistrelli, silenziose. Sono centinaia, forse migliaia. Girano la testa verso di lui e non hanno volto.
    Sotto i suoi piedi, ora che l’occhio di Nyarlathotep è coperto dalle ali oscure, il nero sentiero è svanito. Lupi-centopiedi corrono verso di lui, mostruosi alberi estendono i loro rami serpentiformi, rocce dai mille occhi lo osservano e roteano la lingua giallastra. In preda al terrore Haiiro avanza per attraversare la porta d’argento. Ma di fronte a sé ha solo la dura montagna. La porta d’argento è svanita.
  9. .
    Il suo sguardo si perde nella vastità dello spazio di fronte a lui. Una vastità che rischia di annientarlo, di ridurlo a un nulla. Ma una vastità che lo cattura, lo affascina. Chi ha osservato dall’alto di una montagna il panorama sottostante può comprendere, in minima parte, la sensazione di Haiiro. Ma essa è anche la sua rovina. Perché mentre è immerso nella contemplazione, dietro di sé sente il suono secco di una porta che si chiude. Si gira e la porta non c’è più. Nulla del suo appartamento, di quanto può essergli famigliare, è rimasto. Tutto intorno a lui vi è lo spazio siderale e le stelle lontane. La risata è cessata; l'unico suono che ode è una lontana melodia, troppo tenue per distinguerla. Eppure la sua pelle si tende e rabbrividisce a quelle indistinte note.
    Abbassa gli occhi: sotto di lui vi è il vuoto apparente, eppure egli non cade. Non ha la sensazione di star toccando terra, ma i suoi piedi sono immobili. Muove un passo, poi un secondo e un terzo ancora. Avanza, anche se gli sembra di rimanere nella stessa posizione, tanto è vasto quel luogo. Non avverte resistenza sotto i suoi piedi, eppure non calano a più di una certa distanza.
    «Che luogo è questo?»
    «È lo spazio esterno, in cui quelli della tua genia non possono accedere, se non per rare eccezioni. Tu sei una di quelle.»
    Di fronte a lui, dove prima non vi era che lo spazio vuoto tra le stelle, si erge un uomo. È colui che ha visto nei sogni, nelle fantasie a occhi aperti, nel riflesso di un vetro. E insieme non lo è. L’uomo che ha visto aveva la pelle scura delle popolazioni arabe; colui che ha di fronte ora è una sagoma nera come gli interstizi tra le galassie, i contorni della sua figura appena distinguibili dallo spazio circostante. L’uomo che ha sognato aveva occhi come fiamme; colui che si erge contro di lui ha stelle che brillavano come occhi. L’uomo che l’ha perseguitato era alto tra gli umani, forse due metri; colui che lo sovrasta appare immenso come un corpo celeste. Eppure, per quanto immenso, Haiiro riesce a vederlo nella sua interezza.
    Il suo primo istinto di fronte a quella colossale apparizione è di fuggire, ma si rende conto che sarebbe inutile. Non vi è luogo dove possa rifugiarsi o nascondersi, solo uno sterminato nulla. Non può fuggire.
    Richiama al suo fianco Shero, l’ombra. Non sa quanto possa fare contro quell’essere, ma avere un alleato vicino servirà almeno a rincuorarlo. Ma Shero non compare. Shero, la sua ombra, la sua metà, parte di sé stesso, non può raggiungerlo. È quello più di tutto il resto, più degli immensi spazi siderali, più della maestosa e terrificante sagoma di fronte a sé, a fargli comprendere quanto sia lontano dal suo mondo, dalla sua normalità.
    Deglutisce un grumo di saliva. L’essere torreggia ancora su di lui, immobile e muto. Il bagliore dei suoi occhi non lascia trasparire nulla. Pare capace di attendere eoni in quella posizione, senza provare noia o fastidio. È questo un dio? Si scopre a chiedere Haiiro. L’attimo dopo prova vergogna per quel pensiero. Non è quello l’atteggiamento che lo salverà. Domando la sua paura, rivolge la parola all’essere.
    «Chi sei tu? Perché mi hai portato qua?»
    «Portato?» La voce rimbomba con forza per gli spazi vuoti. Monocorde, priva di ritmi e accenti. Priva di umanità. «Mortale, sei stato tu a invitare un mio me presso di te. Prima l’hai condotto nei tuoi sogni, poi nella tua realtà. Ed egli, in cambio, ti ha portato da me.»
    «No… io non ho fatto nulla…»
    L’essere non replica, ma rimane a fissarlo muto. Sul volto dell’uomo dalla pelle scura Haiiro aveva letto crudeltà e perfidia, disprezzo anche. Ma su quel volto non leggeva nulla. Non è lo stesso essere.
    «Cosa intendi per ‘mio me’? Eri tu quello che ho visto nei miei sogni o un altro?»
    «Era un mio io. Voi umani avete un io. Tu, eccezionalmente, ne hai due. Ma io ne possiedo cento e più. Ognuno di essi è me, una delle forme che mi compongono.»
    Haiiro scuote la testa, confuso. Non capisce cos’è reale o meno. Cos’è verità e cosa menzogna. Pensava che la sua esperienza con le anormalità l’avesse preparato a tutto. Si sbagliava.
    «Voglio tornare a casa. Al mio mondo. Come posso fare?»
    «Hai condotto da te un mio io. Pertanto tu sei stato condotto da me.»
    Il tono è impersonale, ma la condanna celata da quelle parole è senza appello. Per un attimo Haiiro ne è annichilito. Poi ricorda le parole dell’essere. Due io. Ne possiedo due.
    «Dov’è la mia ombra? Dov’è l’altro me, Shero? Voglio lasciare lui in questo luogo, mentre io tornerò sulla Terra.»
    «L’altro tuo io è sulla Terra. Posso aprire un percorso per gli spazi esterni affinché tu ritorni al tuo mondo, al luogo che consideri casa, ma mi devi promettere di consegnarmi l’altro tuo io.»
    Apre la bocca per rispondere, per acconsentire, poi si ferma. La paura lo blocca, l’enormità di quanto sta per fare lo sovrasta. Sta per cedere la sua ombra, sé stesso, a quell’essere sconosciuto. Come si vive senza la propria ombra?
    Scruta lo spazio intorno a sé. Chiude gli occhi. Entra nel dormiveglia. Vuoto: nello spazio siderale intorno a sé e nella sua mente. I sogni non si presentano a lui. È perché sta già sognando? Tutto quello che ha vissuto non è altro che un sogno e il suo corpo giace addormentato nella camera dell’appartamento? Oppure quel luogo è tanto lontano dal mondo della veglia come da quello dei sogni? Solo una cosa sa: non ha altre vie di fuga.
    La sua gola è secca: è la paura a renderla tale. Le parole escono con difficoltà, a grumi, impastate. Ma il loro senso è inequivocabile.
    «Lo prometto.»
    «Di’: “Cedo il mio altro io a Nyarlathotep e accetto la sua protezione”.»
    «Cedo il mio altro io a Nyarlathotep e accetto la sua protezione.»
    Subito sente che qualcosa è cambiato. Una catena lo lega, le parole che ha pronunciato. Ma quelle stesse parole legano l’entità, Nyarlathotep, con cui le ha scambiate. Egli solleva un braccio e nell’alcova tra questo e il suo corpo si forma una corona di luce.
    «Vai, mortale. Percorri gli spazi esterni fin quando non giungerai a una porta d’argento. Focalizza dove vuoi andare e lì sarai condotto. In cambio prenderò il tuo altro io.
    Dovrai attraversare i reami degli Altri Dei, ma io osserverò il tuo incedere e stenderò una strada che ti protegga. Incontrerai molte cose folli e terribili alla tua mente, ma non dovrai mai deviare dal sentiero. Sarebbe la tua fine.»
    Non c’è minaccia in quelle parole. Non c’è emozione. Solo la semplice e implacabile verità. Haiiro attraversa il cerchio di luce.
  10. .
    Solo quando raggiunge il suo appartamento all’Ovile si accorge di non sapere cosa fare. Credeva che l’appuntamento con Kasumi sarebbe durato più a lungo. Avrebbe dovuto durare più a lungo e concludersi con ben altra nota. Ma non è andata così.
    Incerto si muove per le poche stanze del locale, apre credenze, sposta oggetti, rigira una tazza sporca tra le sue dita. Come se gli oggetti potessero dargli istruzioni, qualcosa da fare. Va in camera sua, tira fuori i libri di scuola, legge le prime righe del testo. Pronuncia a mezza voce le parole che legge, eppure non riesce a comprenderle. Scorrono come acqua attraverso il setaccio. Lascia tutto e va in cucina a farsi un caffè.
    Dovevo farlo prima. Nulla lo rimette su più di un caffè. Si gode l’aroma che si sprigiona dalla bevanda prima di portarla alla bocca e berla a piccoli sorsi. Riconosce il gusto amaro, leggermente bruciacchiato, che adora. Eppure non riesce a trarne il solito ristoro. Per quanto cerchi di non pensarci, di concentrarsi sul gusto di caffè, il pensiero dell’appuntamento è sempre lì.
    Il suo sguardo cade sul vetro del forno, che riflette in modo traslucido l’ambiente alle sue spalle e lo stesso Haiiro. Però non lo guarda veramente: solo i suoi occhi si fermano su di esso, la sua mente invece vaga. Torna al negozio di vestiti. A Kasumi che sfila di fronte ai suoi occhi. Alla commessa con quel suo sorriso artificioso in volto. All’uomo nero e alto che lo osserva. Che lo sta osservando.
    Il suo corpo si tende, le ginocchia si flettono pronte a scattare. La mano con cui tiene il caffè sussulta e rischia di rovesciarlo, quella libera si chiude in pugno. Due istinti si sovrappongono: quello di girarsi e osservare quanto si cela dietro di lui. Quello di chiudere gli occhi e affidarsi all’istinto combattivo del Fighting Sleep. Riesce a tenerli a bada entrambi.
    Se mi giro, se distolgo gli occhi, lui scomparirà. Non sa perché lo pensa, ma sente che è così. Quindi rimane a guardare la superficie del forno, no, il riflesso sul vetro. Un riflesso sbiadito, che si confonde con l’interno scuro del forno. Eppure la sagoma che si intravede, nera e alta, è inconfondibile. L’ha già vista, la ricorda: nei suoi sogni, nelle sue fantasie.
    Ma quello non è un sogno, non è una fantasia a occhi aperti. Sa di essere ben sveglio, di non star dormendo. Il peso della tazza sulla sua mano, il caldo che da essa traspare sono concreti, reali. Il gusto di caffè è ancora nella sua bocca, anche se guastato dalla sensazione di pericolo. E allora perché quella persona è lì? È solo un frammento dei suoi sogni, deve esserlo. E allora perché…?
    Sussulta. Il riflesso sul vetro si è mosso: l’uomo ha allungato una mano verso di lui. Sente il corpo formicolare, l’urgenza fisica di muoversi, di non rimanere immobile. Di reagire. La tiene a bada. Poi la mano tocca la sua spalla.
    Non ci pensa, non potrebbe farlo. Tutto avviene talmente velocemente da lasciare la sua mente incapace di comprendere cos’è successo. Sa solo che la tazza è finita in frantumi e il caffè imbratta parete e pavimento. Si è girato e non c’è nessuno dietro di lui. Gli ci vogliono diversi secondi per capire che è stato lui a rompere la tazza. Nel momento in cui l’essere ha toccato la sua spalla, lui si è girato e gli ha lanciato contro la tazza di caffè. Ma non vi era nulla di solido che potesse colpire, se non il muro di fronte a sé.
    Non c’è nessuno lì. Forse non c’è mai stato nessuno. Si chiede cosa fosse, se il frutto di una qualche anormalità o un qualche attacco nemico. O se lui sia solo impazzito. Ha sempre pensato che prima o poi sarebbe successo. Prima o poi non avrebbe più retto. Prima o poi i sogni, le illusioni, avrebbero superato le sue fragili difese e lui sarebbe diventato incapace di distinguere realtà e fantasia.
    Alla fine è successo…
    Abbassa il braccio con cui ha lanciato la tazza. Ogni suo pensiero svanisce, cancellato dal puro e semplice dolore. Deve serrare le labbra per non gridare. Appena ha mosso il braccio ha sentito una fitta, un dolore bruciante alla spalla. Lì dove l’essere l’ha toccato. Con frenesia, imprecando per il dolore, si toglie la maglia, poi la maglietta. Non ci sono segni sui vestiti. Ma sulla sua pelle, sì.
    L’impronta di cinque lunghe dita è incisa sulla sua carne. Cinque segni neri, cinque solchi, cinque presagi di sfortuna. Intagliano la carne per due centimetri buoni. La pelle intorno è nera, come se fosse stata bruciata. Ma non è stato il fuoco a provocarlo.
    La figura riflessa sul vetro. È reale, in qualche modo. Non come le persone normali, no. L’ha vista prima nei suoi sogni, poi nelle sue fantasie a occhi aperti. Infine nel mondo della veglia, ma solo come riflesso su un vetro. Che razza di essere è? Se è un sogno, intangibile nella realtà, forse può affrontarlo nei sogni. Oppure sarebbe più forte lì? Era comparso nei sogni, all’inizio, e solo dopo è riuscito a manifestarsi nella realtà e a ferirlo.
    Haiiro scuote la testa. La ferita continua a fargli male. Va dal rubinetto, fitte di dolore a ogni movimento, e fa scorrere l’acqua. Ci immerge la spalla ferita. Solo altro dolore.
    Va a mettersi su una camicia, la più ampia che trova nell’armadio. Anche così il semplice contatto del tessuto con la ferita gli provoca dolore. Stringe i denti, come ha sempre fatto. Non può certo uscire a petto nudo. Perché se ha imparato qualcosa, nel tempo passato all’Hakoniwa, è che non deve farsi carico lui solo di ogni problema. Se ha bisogno può chiedere aiuto ai suoi amici, ai suoi compagni. Non è più solo nell'affrontare le sue battaglie.
    È con quella convinzione che apre la porta del suo appartamento. Ma di fronte a lui non si apre il famigliare corridoio. Di fronte a lui vi è un buio abisso, puntellato da stelle lontane e fredde, sferzato da un vento crudele. Lontano risuona l’odiosa risata della nera figura.
  11. .
    Camminano fianco a fianco, con solo dieci centimetri forse tra le loro braccia. Ma quei dieci centimetri paiono chilometri, tanto è profondo il fossato tra i due.
    Kasumi non ha aperto bocca, se non per pochi monosillabi in risposta ad Haiiro. Il suo è un silenzio furibondo. La sua camminata è affrettata e diseguale: accelera a gran velocità, poi rallenta, quasi si ferma e riprende di botta. Come se volesse metterlo in difficoltà. Come se volesse scollarselo di dosso. Ma Haiiro le sta dietro, nonostante tutto.
    Non riesce però a superare quel muro di silenzio. I suoi tentativi di dialogo sono incerti e poco convinti. Il senso di colpa lo frena. Kasumi non ha incrociato il suo sguardo da allora. Se non una volta, quando è uscita dal camerino. Abbastanza perché Haiiro notasse il rosso nei suoi occhi. Ha pianto, nel camerino. Ha pianto per colpa sua. Si sente una merda.
    Continua a ripetersi che deve cominciare a parlare, deve fare qualcosa. Perché quel loro appuntamento non può finire in quel modo, così, per una questione tanto stupida. Ci pensa per tutto il tragitto. Tanto da essere stupito quando Kasumi gli rivolge la parola. Tanto da comprendere con un paio di secondi di ritardo che la parola è uno spento e spassionato «ciao» e che sono di fronte alla casa della ragazza. E quando prova a far qualcosa, a muoversi verso di lei, a richiamarla, la porta si è già chiusa alle spalle di Kasumi.
    Resta qualche secondo a osservare la porta chiusa. Sa che non si aprirà di nuovo a mostrargli il volto di Kasumi. Non è quel tipo di ragazza che torna indietro a quella maniera. Semplicemente non riesce a comprendere come tutto possa andare così male. Per colpa di una felpa.
    Quando si volta e riprende a camminare, non ha una direzione in mente, una qualche meta. Lascia che sia il suo corpo a muoversi. La sua mente vaga. Riflette su cosa avrebbe potuto fare perché le cose non andassero così male. Dal fare un commento sui jeans che lei aveva provato, all’imbastire dopo la figuraccia uno spettacolo da strada, per tirarla su.
    Avrei potuto usare il Dream Teller per improvvisarmi ipnotizzatore. O il Figthing Sleep per fare l’acrobata. Avrei anche potuto farli entrambi: l’ipnotizzatore acrobata.
    Il pensiero lo fa sorridere. Perché no? Si dice. Può farlo. Anche se ora non ha più senso. Kasumi se n’è già andata e lui non ha interesse ad allietare la folla. Ma può farlo per sé. Non perché serva a qualcosa, ma perché tutto è meglio che rimuginare su quanto non può cambiare.
    Chiude gli occhi. Sprofonda nel dormiveglia. Si cala in un sogno di negozi a mezz’aria collegati da ponti tibetani, commesse dalla bocca troppo larga e il sorriso a cinquantaquattro denti, schiene di persone che si allontanano senza girarsi. Si mette a salire i ponti, a saltare da uno all’altro, a fare l’equilibrista sopra funi oniriche.
    Qualcuno tra le persone vive il sogno come una fantasia in un angolo della propria mente che svanisce poco dopo. Qualcuno guarda a bocca aperta lo spettacolo di quei negozi fluttuanti e del ragazzo che salta da corda a corda. Qualcuno riconosce o crede di riconoscere nella figura di spalle una persona una volta amata e corre alla sua volta, senza mai raggiungerla. Qualcuno viene inghiottito nel sogno tanto da mettersi a percorrere quei ponti, solo per ruzzolare a terra una volta realizzato che quei ponti non sono mai esistiti, o lo sono stati solo per il tempo di un sogno. Uno di questi percorre per molti metri il ponte prima che i suoi piedi incontrino l’aria e lui cada a terra da un’altezza sufficiente a farlo gridare tenendosi la gamba destra. Ma la maggioranza delle persone, prese dal sogno e credendo pure l’uomo un sogno, non gli prestano attenzione.
    E intanto Haiiro sale per negozi e ponti che sa svaniranno nell’attimo in cui aprirà gli occhi. Sempre più in alto, ma mai abbastanza lontano per raggiungere la figura di schiena. Ma chi è? Perché l’inseguo? Si accorge di non ricordarselo più e si ferma, sul tetto di un negozio. Si sente confuso, si sente smarrito. Sente di aver perso qualcosa di importante. Dietro di lui qualcuno ride. Si gira. Un uomo alto, dalla pelle nera e i lineamenti decisi e nobili, ma crudeli lo fissa. La figura muove il braccio come per scacciare una mosca.
    C’è il vuoto sotto di Haiiro. I negozi e i ponti sono scomparsi e lui sta cadendo. Da in alto, tanto in alto. Sa cadere, ma da quella altezza anche lui non rimarrà incolume. Richiama Shero, la sua ombra. Sotto di sé, fa da cuscino, attutisce la caduta. Haiiro è disteso a terra. Volge gli occhi chiusi all’uomo alto. È ancora lì, sospeso in aria a fissarlo con quei suoi occhi impenetrabili e il sorriso maligno.
    Haiiro apre gli occhi. Sopra di lui non c’è nessuno. Come non ci sono negozi o ponti tibetani o chi si allontana senza girarsi a guardarlo.
    Alcune persone lo osservano confuse, altre girano lo sguardo ancora stordite, ancora incerte su cosa sia realtà e cosa fantasia. Qualcuno ha chiamato un’ambulanza per soccorrere un uomo che si è rotto la gamba.
    Haiiro si rialza in piedi. Non ha subito danni. Shero se n’è già andata. Avrebbe attirato troppo l’attenzione. Anche così, troppi sguardi sono girati verso di lui. Si sente come una preda in trappola e non sa perché. La sua reazione è quella istintiva di ogni preda. Corre. Fugge via, lontano da chi non sa neanche lui.
    Tutto quello che ricorda sono vaghi frammenti del sogno – negozi, ponti e spalle – e frammenti della realtà – persone attorno a lui, sguardi nella sua direzione. Tra questi frammenti vi è anche la figura di un uomo alto, la pelle nera, i lineamenti decisi e malevoli.
  12. .
    Questa è una fanfiction che mescola il mondo di Medaka Box - e in primo luogo i miei pg - con gli orrori ideati da Lovecraft. Orrori lovecraftiani in parte recuperati fedelmente, in parte riadattati a mio giudizio, e in parte inventati di sana pianta.
    Rispetto alle altre storie di Haiiro questa non rientra nella continuità - come si definisce di norma - quindi gli eventi che accadranno non impatteranno sulle sue normali vicende. Altra differenza è che il pensato è messo in corsivo, mentre il parlato rientra tra le virgolette caporali
    Spero che vi piacerà.


    C’è un uomo. È in piedi in mezzo alla folla di persone che si muovono nel centro commerciale. Immobile, statuario: non è fermo come chi aspetta la moglie, o i figli o gli amici, non ha quel nervosismo dell’attesa. Tutto in lui esprime una decisa quiete.
    È alto, sovrasta la gente intorno di una testa. Forse di due. Sarà sui due metri? Possibile. Ha la pelle scura, i lineamenti decisi, affilati. Nobili. Sembra una di quelle statue di fronte ai monumenti. Ma i suoi occhi non sono quelli vuoti e inespressivi di una statua. Sono fiamme che brillano nell’oscurità di un volto altrimenti impassibile.
    Mi fissano, con interesse, con malignità. Non guarda altre persone e le altre persone non guardano lui. Nessuno si gira a osservarlo, nonostante spicchi su tutta la folla circostante. So perché: nessuno lo vede, se non io. Ma io l’ho già visto, lo so, anche se l’ho dimenticato. I suoi occhi mi fissavano mentre in sogno percorrevo un lungo corridoio. Era con me, mentre sognavo l’incendio che ha distrutto la mia casa. Mi spiava mentre il mio corpo si univa a quello di Kasumi e non ricordo se fosse realtà o sogno.
    Perché mi segui? Perché perseguiti i miei sogni? Perché sei qui, in quest’ora che non è sogno ma veglia? Ma quando le mie labbra si spalancano, la domanda è un’altra.
    “Chi sei?” Non la pronuncio, mimo solo le parole con le labbra. Lo vedo distendere la bocca prima inerte in un sorriso. Rabbrividisco. Perché quello è il sorriso di un lupo di fronte alla sua preda.


    «Non pretendo da te assoluta concentrazione, Haiiro. So che sarebbe come chiedere a un pesce di parlare. Però puoi almeno guardare come sto e darmi un tuo parere.»
    Il ragazzo sussulta e si volta verso Kasumi. Il tono sarcastico è una costante della ragazza, c’è abituato e non se ne preoccupa neanche più. Ma l’irritazione che le dipinge il viso è un pessimo segnale, lo sa. Accanto a lei una commessa sulla quarantina sorride imbarazzata, ma con un’ombra di divertimento.
    «Eh, i ragazzi non sono interessati a vestiti e simili. Però con una così bella ragazza io presterei un occhio o anche due.» Tenta di sdrammatizzare, di distendere l’ambiente. Ma non ottiene risposta. Kasumi guarda in silenzio Haiiro, un silenzio che l’invita a dire qualcosa e insieme lo avverte di essere cauto nel parlare.
    Ma lui non si sente in grado di scegliere le frasi con giudizio. A malapena riesce a fare mente locale di quanto sta accadendo. Kasumi. Appuntamento. Shopping. Negozio di vestiti. Mette i pezzi del puzzle assieme. Kasumi si è provata un vestito nuovo e gli ha chiesto come sta.
    «Ehm…» Mormora per prendere tempo. Per osservare la ragazza. Cosa dire? Non presta attenzione ai vestiti, lui, e trova Kasumi bella con qualsiasi cosa indossi. Non è civetteria, è la realtà. Ma non è quello che Kasumi vuole sentirsi dire. Lei vuole un giudizio sul vestito. Lui la perlustra con lo sguardo cercando qualcosa da dire.
    «Mi piace il colore della felpa.» Capisce che è un errore appena lo dice. Anche se non sa perché. La commessa distoglie gli occhi, non sorride neanche più, prova imbarazzo allo stato puro, senza possibilità neppure di divertirsi, non per chi è lì.
    Kasumi invece lo guarda fisso ed è molto peggio. C’è rabbia e offesa in quello sguardo. Non dice niente e questo è terribile. Haiiro sa reggere il suo sarcasmo, ma il suo silenzio lo annichilisce. Sa che solo quand’è veramente infuriata Kasumi non dice nulla.
    «Cosa…?» Prova a chiedere timidamente. La commessa pare sul punto di rispondere, ma Kasumi l’anticipa. Non con parole, rimane ancora in silenzio, ma afferra l’etichetta del prezzo del vestito provato. L’etichetta dei jeans, non della felpa. Quella è la stessa che aveva indossato per l’appuntamento e che possiede da tempo.
    «Oh…» È l’unica cosa che possa dire prima che Kasumi si volti e vada a cambiarsi. Haiiro fa un passo verso di lei, allunga il braccio, mormora una prima sillaba, «Ka…» Non va oltre. Non sa cosa potrebbe dire. Scusarsi? Non crede servirebbe, non ora. Si sente un idiota.
    «Magari la prossima volta potrebbe fare più attenzione…» È un rimprovero lieve, quello della commessa, fatto con un sorriso a fior di labbra di cortesia. È un rimprovero giusto. Da Kasumi avrebbe accettato questo e altro. Ma da parte della commessa diventa solo un modo per sfogare la sua frustrazione.
    «Ma lei che ne vuole sapere?! Si faccia gli affari suoi e non si immischi!»
    Il sorriso scompare dal volto della commessa. Arriccia le labbra, lo sguardo duro. Non risponde solo perché conscia del suo ruolo, ma non è intenzionata a rimanere lì. Gira i tacchi e va a trovare nuovi clienti che siano bisognosi del suo aiuto. A quella coppia non serve più.
    Haiiro rimane da solo a maledirsi. Nei suoi pensieri indirizza la rabbia prima verso di sé, poi verso la commessa, infine sul tipo che l’ha distratto. Che tipo? Si chiede l’attimo dopo.
    Si gira a osservare la folla oltre i vetri del negozio. Folla multiforme e vaga, composta da mille volti e nessuno. Tutti si confondono tra loro, nessuno attira la sua attenzione. Ma c’era qualcuno. Chi? Non lo ricorda. Forse non c’era nessuno, si dice. Forse era stata solo una sua fantasia. Un sogno a occhi aperti. Gli capitano spesso. Quello era venuto nel momento peggiore. Eppure ha l’impressione che fosse qualcosa di importante.
    Mah, tutti i sogni sembrano tali. Non ha voglia di pensarci sopra. Ha altro su cui riflettere. Come riappacificarsi con Kasumi, ad esempio. E poi era solo un sogno. Per un attimo sorride a quel pensiero. Lui è l’ultima persona che può dirlo.
    Ma il problema che deve affrontare ora è un problema quotidiano. Un problema che ogni persona, ogni coppia affronta talvolta. Non ha nulla a che fare con sogni e anormalità. Quasi quasi preferirebbe che fosse il contrario. Almeno con le anormalità le cose sono più semplici, di norma. Affrontare una Kasumi incazzata nera verso di lui, invece, era una vera sfida da far invidia a ogni altra furia.
    Si dirige verso il camerino della ragazza. Pensa a qualcosa per tirarla su, per farle dimenticare la figuraccia. Lascia alle sue spalle ogni domanda su sogni e misteriosi personaggi intravisti nei sogni. Non è quello il problema. Non quel giorno.
  13. .

    Haiiro & Kasumi

    Goro chiarì i probabili effetti delle illusioni di Haiiro sul Berserker. Ma la risposta non era incoraggiante.
    «Penso che funzionerebbe per almeno un po', quanto basta perché riesca a capire che i suoi sensi non sono più affidabili...
    Il problema è che il Berserker è una bestia feroce, e quando un animale si sente messo all'angolo diventa più pericoloso, in questo caso perché comincerebbe ad attaccare a caso, e visto che può sfondare muri di cemento come se fossero grissini, e considerando che gli attacchi alla cieca sono più difficili da prevedere, direi di non abusare troppo delle illusioni.»

    «In pratica usalo a tuo rischio e pericolo, senza esagerare? Non potevi trovarti un minus con minori inconvenient… Ahi!»
    Si voltò risentito verso Kasumi ma gli bastò osservare lo sguardo infuriato della ragazza, insieme al dolore sul piede dove l’aveva pestato con forza, per comprendere.
    «Uhm, ok, scusa Goro, so che non te lo sei andato a cercare. Nessuno di noi l’ha fatto.»
    Nel frattempo Goro si era rivolto ad Asako per esaminare gli effetti perduranti del Relieve Kiss. Ma non sfuggì a Kasumi che l’anormale aveva scelto il tempismo apposito per evitare che lei sentisse il discorso sui danni fisici, come confermò lui stesso. Quello che invece la sorprese fu la “battuta” di Goro.
    «Sei anche capace di ironia?» Il tono della domanda ricordava quello di un adulto verso un bambino piccolo ma precoce che avesse appena mostrato di saper leggere l’alfabeto. Con in più quella vena sardonica che tanto spesso percorreva le sue parole.
    «In ogni caso, non so quanto siate duri di stomaco, ma è meglio farvi vedere lo stato in cui sono stato ridotto per tornare normale.»
    Quello non era un problema per nessuno dei due. Anzi, per Kasumi le cose disgustose e repellenti e parenti erano o potevano essere carburante per la sua arte. Ad Haiiro erano semplicemente indifferenti.
    «Mostra senza preoccuparti. Come si dice una buona immagine vale più di mille parole.»
    È quanto Goro fece. Adoperò la consueta modalità – che Kasumi stava seriamente pensando di ricreare in una qualche opera d’arte, magari usando la cera e avrebbe dovuto chiedere ai membri del club d’arte qualche consiglio in merito – di modifica della propria mano per ricostruire la scena. I due minus osservarono il corpo di Goro mutato in Berserker in condizioni che definire pietose sarebbe stato riduttivo. Era tronco dal livello della vita, gli organi e le budella in vista, il braccio destro mancante. Per finire aveva un grosso buco sul petto, a livello di dove Haiiro riteneva, e Kasumi sapeva, esservi il cuore. Uno scarafaggio avrebbe solo potuto imparare dalle capacità di sopravvivenza di Goro.
    «Questo è il minimo necessario a farmi tornare normale.
    Parlando di forza e capacità in battaglia, conosco poche persone con le capacità necessarie a ridurmi così, uno dei tanti motivi per cui preferirei non far affrontare la quinta mutazione a nessuno.»

    «Beh, se proprio devo vedere il lato positivo, quantomeno ora so di non dovermi trattenere. Se sei sopravvissuto a questo, qualsiasi cosa io possa farti non ti ucciderà.»
    Nonostante le sue parole, l’espressione di Haiiro era corrucciata. Sapeva che da solo non avrebbe mai potuto reggere il confronto con Goro, ma quello gli faceva dubitare di avere qualche possibilità anche in gruppo. Al contrario Kasumi, al suo fianco, sorrideva deliziata.
    «Senti Goro, se avessi bisogno di un modello per ritratti anatomici, mi potresti aiutare, vero?»
    Haiiro le gettò un’occhiata come a dire “E poi sono io quello che salta di palo in frasca?” Kasumi si limitò a sorridergli di rimando.
    «Scusate se sembro così poco fiducioso, è solo che ho già provato più metodi per contenerlo o fermarlo, e l'unico che sembra funzionare al 100% è Asako.»
    «La donna che trattiene la bestia…» Mormorò Kasumi con un’ironia che doveva suonare ben poco chiara agli altri, ricordando una rappresentazione che aveva visto su una carta dei tarocchi.
    L’accenno ad Asako ricordò all’anormale di controllare i suoi progressi. Dal rapido ‘test’ eseguito, trasse poi le sue considerazioni.
    «Decade lentamente nel tempo, ma si tratta di un bersaglio consenziente che ha successivamente iniziato a forzare il "sigillo", con dei nemici in grado di opporre resistenza fin da subito potrebbe perdere efficacia anche più velocemente.»
    Kasumi annuì. Non pareva affatto sorpresa. Al contrario Goro aveva confermato quanto lei già immaginava.
    «Nulla di inaspettato. È un potere nato per dare conforto, usarlo in altri modi è una forzatura.»
    Stiracchiò le braccia, avvertendo un lieve languorino.
    «Andiamo a mangiarci qualcosa? Goro potrà andare a luce e Haiiro a caffè, ma io a quest’ora ho sempre una cera fame.»


  14. .
    CITAZIONE
    Mentre parlavano, Haiiro annotava le varie informazioni in un angolo della sua mente. La maschera, ad esempio: il servant aveva detto di non potersene privare, quindi doveva essere un elemento fortemente legato alla sua identità. Un indizio importante, anche se troppo esiguo per trarre qualsiasi conclusione, almeno per il momento.
    «Finché non ci siamo incontrati ammetto che non sapevo cosa aspettarmi da un altro Master. Però devo anche ammettere che mi aspettavo di incontrare qualcuno più improntato a voler subito combattere piuttosto che parlare, dopotutto questa è una guerra, anche se approvo il tuo punto di vista.»
    Si limitò a sorridere educato di fronte a quelle parole. Dal suo punto di vista, proprio perché era una guerra tra più avversari bisognava agire con prudenza, senza scoprire troppo le carte e senza sprecare troppe energie, soprattutto all’inizio.
    «Bene, è positivo che su questo siamo concordi.»
    Fu poi il servant mascherato a riprendere la parola e a decidere la loro strategia.
    «Raccogliere informazioni sui propri nemici e sui possibili alleati sarà senz’altro utile. Ma direi di dirigerci contro la coppia di Servant. Non mi piace l’idea di affrontare qualcuno in inferiorità numerica e se combattesse solo uno di noi due l’altro terrebbe nascoste le proprie capacità, rendendo inutile la tua proposta.»
    «Più che giusto. Allora direi che abbiamo scelto il nostro bersaglio.» Estrasse dal portafoglio una banconota che pose sopra il tavolo. A quanto pare non era più tempo di rimanere in quel luogo. Ma proprio in quel momento successe qualcosa che cambiò la loro strategia. Prima vi fu un aumento di energia magica, poi una chiazza nera, una sorta di nebbia oscura, che inglobava parte di un edificio. La zona era quella da cui proveniva l’energia di molteplici servant.
    «Volevi un master più propenso al combattimento? Ecco, pare che il tuo desiderio sia stato avverato.» Disse non senza una certa ironia. «Inoltre un simile evento verrà notato da tutti o quasi i servant. Anche la coppia che volevamo attaccare si sta dirigendo lì…»
    Si fermò, avvertendo un altro cambiamento, stavolta più vicino e meno misterioso ma, ai suoi occhi, altrettanto inspiegabile. Infatti, di propria volontà e senza nessun ordine da parte di Haiiro, il suo servant si era manifestato nella sua forma materiale, mostrandosi all’altra coppia nella forma di una bella fanciulla dai lunghi capelli biondi, i lineamenti severi ma eleganti. Indossava un completo pantaloni e tailleur, uno degli acquisti di quella mattina, ma Haiiro sapeva che avrebbe potuto richiamare all’istante il suo equipaggiamento da battaglia.
    «Master. Dobbiamo recarci lì anche noi. Ho un brutto presentimento. Inoltre un tale avvenimento può mettere in pericolo la vita di persone innocenti.»
    Haiiro avrebbe voluto dirle un sacco di cose. Ad esempio: “Perché diavolo ti sei manifestata? Non potevi rimanere in forma spirituale?” Oppure: “Vite innocenti? È una guerra, certo che ci saranno vittime collaterali, non possiamo certo sobbarcarcene noi!”. Così tante che per un secondo non riuscì a dire proprio nulla. E quando si fu ripreso capì che, qualsiasi cosa avesse detto, era ormai troppo tardi.
    «Già. Certo. È comunque qualcosa che avrà un impatto sulla guerra. Un’opportunità per cogliere informazioni sui nemici.» Provò a razionalizzare.
    «Ok. Muoviamoci in quella direzione e vediamo cosa succede. In caso, possiamo anche solo osservare. Raccogliere informazioni sui nemici senza svelarne su di noi. Voi siete d’accordo?» Chiese al master e servant di fronte a lui.
  15. .
    CITAZIONE
    Haiiro fissava la direzione verso cui il suo servant aveva avvertito delle presenze, quasi si sforzasse con gli occhi o con la mente di poter attraversare lo spazio per assistere all’incontro. Dove fossero puntati gli occhi del suo servant, il corpo reso incorporeo, non lo poteva sapere, né conosceva i suoi pensieri. Solo le sue parole erano percettibili.
    «Master. Pare che non potremmo evitare un incontro.»
    La mano di Haiiro si chiuse intorno alla bustina di zucchero vuota, accartocciandola.
    «Chi… no, da che parte?»
    «Giungono da sud, ad alta velocità.»
    «Alta velocità? Cosa intendi per alta velocit… oh, questo intendi.»
    Dove “questo” era il catapultarsi o quasi di un servant e master attraverso salti sui tetti. Non era difficile intuire di chi fosse stata l’idea per quella modalità di spostamento, bastava osservare la rabbia e l’agitazione della ragazza che doveva fare da master. A quella vista Haiiro sbuffò stizzito.
    «Che razza di modo coreografico per muoversi.»
    «Dal punto di vista di tempo e distanza percorsa è conveniente però.»
    «Cosa c’entra? Noi siamo maghi. Anche in una guerra come questa dobbiamo rispettare il tabù della segretezza sulle nostre arti. E fare salti del genere non aiuta affatto!»
    «Temo che, col procedere della guerra, accadranno cose ben più gravi ed evidenti. Un atto simile, al confronto, è una sciocchezza.»
    Haiiro rimase un attimo senza risposte, prima di ribattere scocciato: «Proprio perché andando avanti si faranno più frequenti, è meglio evitare di dar nell’occhio dall’inizio.»
    Nel mentre di questo battibecco, la nuova coppia di master-servant si era avvicinata a loro.
    «Buonasera, ti dispiace se prendiamo un caffè con te?»
    A esordire fu il servant. Haiiro lo guardò: era il primo spirito eroico non al suo servizio che si trovava di fronte. Un essere talmente potente che, volendo, avrebbe potuto uccidere il mago in un secondo. L’unica cosa che lo impediva era la presenza al suo fianco, in corpo spirituale, del proprio servant, dotato di una forza simile. Pensare ciò, più che paura, gli provocava una sorta di vertigine. Fece del suo meglio per sorridere cordiale.
    «Certo, nessun problema. Oggi pare una serata affollata, ma qui siamo solo noi, quindi possiamo parlare con tranquillità.» Era piuttosto ovvio, almeno che la coppia di fronte a lui non fosse formata da due sceme totali, cosa intendesse dire con quell’affermazione.
    «Ma mi chiedo se il tuo sia l’abbigliamento più consono per questo tempo e lungo.» Aggiunse fissando il lungo mantello con cappuccio calato e la maschera. Era un modo per nascondere l’identità del servant o faceva parte del suo abito al momento dell’evocazione? Visto che avrebbe potuto rimanere in corpo spirituale per celarsi era più probabile la seconda, ma non si poteva mai sapere.
    «Anche la tua compagna può sedersi con noi» disse rivolto al master rimasta più discosta. Si chiese se quella ritrosia fosse dettata da cautela o altro. Vedendo come fosse stato il servant a prendere l’iniziativa di parlare e, con ogni probabilità, a scegliere la modalità di spostamento, non era impossibile che si trovasse di fronte a un master debole, incapace di farsi obbedire dal suo servant.
    Per il momento richiamò una cameriera con un gesto della mano. Strano. Fino a un attimo prima era agitato e incerto alla sola prospettiva di trovarsi di fronte uno degli altri partecipanti alla guerra. Ora che quella possibilità si era concretizzato non solo non aveva paura, ma sentiva una strana eccitazione, un’inaspettata baldanza.
    «Mantieni la calma, master. Né nervosismo né esaltazione devono annebbiare il tuo giudizio.» Avvertì le parole, appena sussurrate, del servant al suo fianco. Fece una smorfia: proprio quando cominciava a sentirsi a suo agio, doveva gettare acqua sul fuoco. Con la testa riconosceva che aveva ragione, ma ne era infastidito. Quel suo servant doveva proprio formulare ogni volta il giudizio più corretto?
    Per parlare aspettò che la cameriera avesse preso l’ordine e si fosse allontanata. Non voleva certo che persone comuni sentissero i loro discorsi. Anche se con ogni probabilità avrebbero pensato stessero discutendo di un qualche gioco di ruolo. Nel frattempo studiò le figure di fronte a lui, per coglierne più particolari possibili.
    «Se siete venuti da me, immagino che le ragioni possano essere tre: per studiare uno dei vostri contendenti in questa guerra, per stringere un’alleanza, oppure…» e qua raddrizzò la schiena «per combattere. Ma, nell’ultimo caso, vi posso promettere che non sarà facile.»
    Sorrise, facendo del suo meglio per sembrare spavaldo. Il suo servant rimase in silenzio al suo fianco, il corpo immateriale, privo di una faccia che potesse esprimere accordo o disapprovazione rispetto alle parole del proprio master.
    «Ah, non fraintendete. Da parte mia non c’è nessun desiderio di sprecare energie per un combattimento fin dall’inizio della guerra. Anzi, la cosa potrebbe essere controproducente.
    Altri servant coi loro master si sono radunati. Potrebbe essere l’inizio di un combattimento, ma potrebbero pure formarsi delle alleanze. Non nutro dubbi sulla forza del mio servant, ma trovarsi a far fronte a più nemici insieme sarebbe dura anche per me. D’altra parte non posso neppure chiedere un’alleanza alla prima coppia di master e servant che incontro senza sapere nulla sulle loro capacità. E immagino che la cosa valga anche per voi.»

    Una voce nella sua testa, stranamente simile a quella del suo servant, gli chiese cosa volesse fare esattamente, se non voleva né lottare né era sicuro di allearsi. “Ci sto pensando ora” fu la sua replica mentale.
    «Master» la voce femminile, reale stavolta, del suo servant lo fece sussultare sulla sedia. «C’è un’altra presenza, un altro servant non troppo distante da noi.»
    «Ma cos'è stasera, il ballo delle debuttanti? Tutti i servant si sono presentati?»
    Però quello gli fece venire in mente un’idea. Certo, aveva dei rischi – cosa non ne aveva in quella guerra? – e bisognava vedere se la coppia di fronte a sé avrebbe accettato, ma si poteva provare.
    «Credo che voi, come me, vogliate sincerarvi delle capacità degli altri servant. Se siete venuti da me, è perché non volevate trovarvi in inferiorità numerica. Ma ora che siamo in due, perché non verificare quali sono i nostri contendenti e qual è la loro forza? Perché non recarci da uno degli altri gruppi – direi dal servant singolo o dalla coppia di due servant – e affrontarli? In questo modo possiamo appurare la loro forza e quella rispettiva nostra. Possiamo considerarla una sorta di alleanza temporanea, valida solo per stasera. In seguito, dopo aver constatato sul campo le nostre rispettive capacità possiamo decidere se ha senso prolungarla o è meglio che i nostri sentieri divergano.»
    Concluse quella sua arringa col suo miglior sorriso da venditore incallito di enciclopedie porta a porta.
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